Esaminiamo oggi un interessante articolo pubblicato a firma di Max Boot. (More Small Wars) apparso su “Foreign Affairs”, Nov/Dic 2014.
Lo citiamo perché non è facile trovare nella stampa a stelle e strisce un’analisi così dura ed impietosa sugli errori strategici ed operativi commessi dalla Casa Bianca in questi ultimi dieci anni, per trarre validi insegnamenti per il futuro.
Innanzitutto l’idea che le guerre si possano vincere confidando sulla tecnologia e sui droni: è stata ed è una falsa illusione, perché le conquista territoriali durature sono quelle che impegnano sempre le forze sul terreno. Il no boots on the ground può reggere solo temporaneamente, specie poi quando nel teatro delle operazioni non si dispongono di alleati che possano gestire le operazioni “per procura”.
Altro errore grave commesso dalla Casa Bianca è stato quello di programmare azioni militare volte all’abbattimento dell’ordine costituito senza preoccuparsi minimamente del “dopo”: è evidente agli occhi di tutti il fallimento di quanto successo in Libia, dopo la cacciata di Gheddafi – iniziata dai francesi col beneplacito di Washington. Oggi ci si ritrova un paese versato nella più completa anarchia che può essere infiltrato da gruppi terroristici e destabilizzare l’intera area mediterranea. Correlato a questo errore ve n’è un altro –non meno grave – che consiste nello strutturare operazioni militari partendo da presupposti ottimistici e non contemplando alcuno scenario fuori di quello in cui tutto fili liscio: sembra pazzesco, ma l’ultima campagna Iraq è stata gestita secondo il presupposto che, una volta eliminati gli uomini del precedente regime, accompagnati gli iracheni alle soglie della prima elezione, tutto si sarebbe risolto automaticamente per il meglio.
Qui si entra in un’altra grave mancanza riscontrata nel corso di questo arco di tempo: la difficoltà americana di gestire rapporti duraturi con i poteri civili e la popolazione. Sintomatico il racconto di un episodio successivo ad un attentato subito dalle forze americane in Iraq: nessuno era in grado di parlare in arabo col risultato di equivocare, e aggredire per reazione, chiunque in arabo si avvicini per comunicare. Non si sono mai strutturate relazioni stabili con organismi associativi locali e quasi sempre la popolazione locale è rimasta abbandonata a sé stessa con l’idea di aver subito un’invasione in piena regola.
Già a leggere queste righe sorge – crediamo- spontanea la domanda come mai nessuno si sia accorto di queste cose, e qui la risposta dello studioso ci lascia letteralmente basiti. A suo giudizio con la presidenza Bush si è sviluppata la tendenza, nelle Forze Armate, a compiacere il potere politico senza espletare la funzione di illustrare lealmente in modo franco finanche oppositivo i problemi stessi. E’ drammatico leggere di come il generale Petraeus abbia dovuto saltare tutta la catena di comando pe reperire le informazioni vere, interrogando la truppa e i civili con cui questa veniva a contatto. Così come fa riflettere il fatto che gli unici due funzionari dotati –a giudizio dell’autore- di acume strategico – Petraeus e l’ambasciatore Ryan Crocker – provengano, il primo da un corso di studi a Princeton, il secondo dall’aver svolto molte altre attività che l’hanno reso eclettico in situazioni fra loro più disparate: questo deve far riflettere sul livello di preparazione delle forze impiegate, dai vertici alle forze sul terreno. Né si può tacere sugli sbagli derivanti dall’assenza di un’ interoperatività fra le agenzie militari e di intelligence, la mancanza di comunicazione fra le quali comporta la mancanza di informazioni spesso cruciali per decidere di un’operazione .
Non si può trascurare il problema dei contractors che tanto rilievo hanno avuto nei media per veri e propri crimini di guerra compiuti (si pensi al caso della Blackwater): ebbene, premesso che non debbano farsi generalizzazioni, occorre eliminare quella ipocrisia di rappresentare al popolo americano falsi tagli al budget delle forze armate controbilanciati, nei fatti, da lucrosi contratti per servizi di sicurezza e di logistica affidati a società esterne che talvolta finiscono condizionare – specie nella parte logistica – la strutturazione delle stesse operazioni militari.
La chiusa finale dell’articolo è forse più un auspicio che un’indicazione concreta: l’autore ritiene che si deve avere il coraggio di riqualificare la spesa militare – a costo di sfidare le prevedibili opposizioni del Pentagono – tenendo conto proprio di quegli errori indicati e, soprattutto, evitare qualsiasi operazione bellica che non abbia tempi certi ed obiettivi precisi perché oggi, nel 2014, l’opinione pubblica non sarebbe più disposta a tollerare una guerra senza fine.
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