Il libro della natura e i suoi lettori

Creato il 13 giugno 2014 da Francosenia

Oggettivismo incosciente
- Aspetti di una critica delle scienze naturali matematiche -
di Claus Peter Ortlieb

Difficilmente, si troverà un altro sottosistema della società moderna che, tanto nell'immagine che ha di sé stesso quanto nell'immagine che ne ha l'opinione pubblica, si mostri altrettanto resistente alla critica del sottosistema delle "scienze dure", la "scienza autentica" nel senso della frase di Kant, secondo la quale "in ogni teoria particolare della natura si trova tanto scienza autentica quanto matematica". Le scienze della natura sono state criticate, soprattutto a partire dagli anni '70, segnatamente dal femminismo e dai movimenti alternativi. Il fatto che l'uso sociale delle scoperte scientifiche sia un argomento più che delicato, è evidente per molti scienziati; e dalle loro fila provengono le critiche più rigorose e più competenti di un tale sviluppo. Ma cosa può esserci di criticabile nella conoscenza scientifica in sé, nella scoperta di leggi naturali e di fatti inconfutabili? Così, la critica femminista non prende affatto sul serio la questione di un'altra scienza, né la percepisce come problema: al contrario, la rifiuta con la considerazione beffarda a proposito del fatto se per caso, d'ora in poi, non sarebbe più valida la legge della caduta dei corpi, o se forse due più due dovrebbe smettere di fare quattro; una replica, che rende superflua qualsiasi ulteriore discussione. Un simile atteggiamento difensivo, che si premunisce contro qualsiasi critica, si nutre dell'idea delle scienze naturali viste come uno strumento neutro. Bisogna osservare, in primo luogo, che una tale idea costituisce storicamente una posizione di ripiego. I contemporanei di Galileo, come Francis Bacon, Thomas Hobbes o René Descartes, avevano una concezione molto più ambiziosa del pensiero scientifico, inteso come cammino verso il buon vivere, verso la pace perpetua e, di fatto, alla soluzione di tutti i problemi accessibili alla conoscenza umana. Non mi occuperò qui di queste concezioni, dal momento che nell'era della tecnologia nucleare e dei rischi ecologici globali dovuti all'applicazione delle scoperte scientifiche, non è rimasto, in alcun modo, più nessuno a difenderle. La concezione moderna della scienza "neutra", invece, è più difficile da decostruire. Nella sua variante più ingenua, che possiamo supporre come predominante in seno al pubblico non specialista, la conoscenza scientifica si presenta semplicemente come un insieme di proposizioni vere circa la natura, ottenute per mezzo di osservazioni esatte e attraverso la descrizione matematica precisa delle stesse. Una tale immagine è stata fomentata soprattutto dal positivismo.
A partire dalle innegabili rotture che hanno segnato la storia delle scienze naturali, e che sarebbero state impossibili, sotto tutti gli aspetti, se si fosse trattato di un metodo che si limita a constatare dei fatti; gli scienziati stessi, nel momento in cui riflettono su un tale metodo, vedono la questione in maniera più sfumata, supponendo che il pensiero umano, nella sua imperfezione, non arrivi mai a scoprire l'intera verità per caso. Ciò che, tuttavia, la maggioranza di loro condivide con il pubblico informato, è l'idea secondo la quale c'è una visione della natura che è valida universalmente, per tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle forme di società, e che il progresso scientifico consiste nel tendere verso uno stato di conoscenza corrispondente ad un tale visione. Questa concezione è inseparabile dall'idea di uno sviluppo lineare, il progresso scientifico, le cui origini risalgono alla preistoria umana, perfino ancora più lontano, secondo l'immagine di Popper (N.d.T.: Karl Popper -   Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico - Armando 2002).
Uno dei tratti caratteristici delle scienze della natura è che, storicamente, esse sono sorte solo in seno ad un'unica cultura, la società borghese. Così, l'Illuminismo è riuscito a proclamare l'universalità di questa forma di conoscenza che gli è propria, in quanto corrisponde alla concezione che esso ha di sé stesso come stadio ultimo e supremo della storia umana. Questa concezione oggettivista della conoscenza scientifica non è in grado di confutare l'esteriore, con la semplice indicazione del suo contesto culturale e sociale. Inoltre, analizzerò l'attività scientifico-matematica, in primo luogo, in maniera immanente, a partire da Immanuel Kant. Seguendo su questo punto, Sohn-Tethel, Greiff e  Müller, credo che il grande filosofo dei Lumi avesse già sviluppato gli strumenti che gli permettevano di decostruire il pensiero dell'Illuminismo a partire dall'interno, anche se lui stesso non ha effettuato questo secondo passo.
L'empirista David Hume (del quale Kant diceva che era uscito dal suo "sonno dogmatico") aveva già dimostrato che un fondamento empirico della conoscenza è impossibile, dal momento che una legge della natura non può essere dedotta in maniera conclusiva dall'esperienza: "Perché tutte le inferenze tratte dall'esperienza suppongono, come principio, che il futuro assomiglierà al passato, e che dei poteri simili siano uniti a delle qualità sensibili simili. Se vi è un qualche sospetto che il corso della natura possa cambiare, e che il passato non possa servire da regola per il futuro, tutte le esperienze diventano inutili e non possono dar luogo a nessuna inferenza e a nessuna conclusione. E' quindi impossibile che degli argomenti tratti dall'esperienza possano provare questa somiglianza del passato e del futuro, perché tutti questi argomenti riposano sulla supposizione di tale somiglianza." L'empirista onesto dev'essere scettico se non vuole smarrirsi: "Mi sembra che i soli oggetti della scienza astratta, della scienza della dimostrazione, siano la quantità e il numero, e che tutti i tentativi di estendere questa specie più perfetta di conoscenza al di là dei suoi confini, non sia altro che sofisma e pura illusione". Cosa che non ha impedito, tuttavia, che l'empirismo moderno provi e riprovi, ancora ed ancora, ad insistere su un fondamento empirico di tutte le conoscenze scientifiche della natura. In definitiva, la forma di conoscenza più recente che si riferisce esclusivamente all'esperienza immediata (supponendo che una tale cosa esista) sembra essere la teoria aristotelica della natura, con i suoi aggiustamenti medievali. Di fronte ad essa, la scienza moderna della natura si costituisce proprio attraverso la dissociazione dalla conoscenza empirica immediata, ed il suo singolare successo consiste in questa "rivoluzione del modo di pensare" (Kant). Proverò dopo ad illustrare questo fatto per mezzo di qualche esempio degli inizi della scienza moderna.

L'ascesa dell'epoca borghese comincia con un modello matematico. Niccolò Copernico (1473-1543), nella sua opera "De revolutionibus orbium coelestium", pubblicata poco prima della sua morte, rompe con la concezione tolemaica o geocentrica del mondo che ha dominato durante il Medioevo. La concezione copernicana del mondo appartiene oramai al patrimonio certo del nostro sapere. Nessun membro dell'Illuminismo lo rifiuterebbe in favore del sistema tolemaico (...) e ci è stato comunicato fin dall'infanzia dalla scuola e dai libri. E' evidente che non si può avere alcuna osservazione astronomica che coincida con una delle due concezioni del mondo e non coincida con l'altra, dal momento che, finché ci si riferisce all'osservazione, le due visioni sono completamente identiche. Dal punto di vista della fisica moderna, si tratta semplicemente di un cambiamento del sistema di riferimento. Nemmeno il telescopio, che Galileo utilizza per la prima volta per osservare i movimenti celesti, ci è di alcun aiuto. Quello che Galileo osserva, è il movimento delle lune di Giove attorno a questo pianeta, ma ciò non dimostra la verità del sistema copernicano, o per lo meno non viene dimostrato per mezzo dell'osservazione ma, in ogni caso, sulla base di un principio universale secondo cui i corpi celesti più piccoli girano intorno a quelli più grandi. Questa concezione del principio universale, delle "leggi della natura", insieme alla concezione concomitante di semplicità, si impose durante il secolo e mezzo che separa Copernico da Newton. Così, lo stesso Copernico, nel prologo alla sua opera del 1543, redatta sotto forma di lettera al papa Paolo III, non insiste tanto su un adeguamento ai dati dell'osservazione quanto, al contrario, sulle categorie di ordine e di uniformità. L'adeguamento ai dati dell'osservazione non poteva essere significativo ai fini della scelta fra il sistema copernicano e quello tolemaico, fra l'altro perché era impossibile ottenere tale adeguamento, come sappiamo, sulla base dei movimenti circolari postulati dai due sistemi. E' solo con Keplero (1571-1630) che le orbite circolari vengono sostituite da delle ellissi, e per la prima volta un principio unitario riesce a spiegare un grande varietà di osservazioni astronomiche. Keplero prende molto sul serio la corrispondenza fra predizione e osservazione: secondo il suo testamento, è stata una differenza di otto minuti che lo ha portato ad inverare l'ipotesi precedente e a riformare l'intera astronomia. Allo stesso modo, la concezione centrale del sistema scientifico di Keplero è quella dell'armonia, nel senso di una "visione del mondo come cosmo ordinato e strutturato in conformità con le leggi geometriche". Questo modo di pensare può essere illustrato con il seguente passaggio del "Mysterium cosmographicum" (1596), nel quale le orbite planetarie vengono messe in relazione con i cinque corpi platonici: "La Terra è la misura di tutte le altre orbite. Un dodecaedro circoscrive la Terra; la sfera che la circonda è Marte. Un tetraedro circoscrive l'orbita di Marte; la sfera che lo circonda è Giove. Un cubo circoscrive l'orbita di Giove; la sfera che lo circonda è Saturno. Ora viene inserito un icosaedro nell'orbita della Terra; la sfera inscritta a essa è Venere. Nell'orbita di Venere viene inserito un ottaedro; la sfera iscritta ad esso è Mercurio. Abbiamo qui la causa del numero dei pianeti". Dal punto di vista attuale, considerati i pianeti che sono stati scoperti dopo, l'argomentazione è erronea; ma mette in evidenza il peso che ha avuto, nel sistema di Keplero, la speculazione autonoma, orientata dalle delle idee puramente matematiche, in confronto ai dati empirici.
Galileo Galilei (1564-1642), contemporaneo di Keplero, passa per essere uomo più sobrio, e dai metodi meno speculativi, sebbene anch'essi non provengano dall'esperienza immediata. Musler si prese gioco della concezione empirista, secondo la quale l'osservazione dev'essere il punto di partenza di ogni scienza naturale, parodiando, con le parole che seguono, la leggenda tradizionale a proposito di Galileo e la torre pendente: "Un giorno il giovane Galileo tornò alla torre pendente della sua nativa Pisa, portando con sé diversi oggetti che con visibile piacere lascia poi cadere dall'alto, l'uno dopo l'altro: una palla di piombo, un vecchio telescopio, i suoi occhiali, un mestolo, una lanterna di carta, dei cuscini, qualche grano di polline, e un uccello. Dopo, scende di corsa e constata che la palla, il mestolo, gli occhiali e il telescopio si trovavano sull'erba, mentre la lanterna di carta cadeva davanti ai suoi occhi; qualche piuma continuava a danzare nell'aria, il polline era stato afferrato dal vento e non si vedeva più, e l'uccello, desideroso di altezza e di esotismo, era svanito nel nulla. Galileo riassunse i risultati dell'esperimento proclamando: Tutti i corpi cadono alla stessa velocità."
Abbiamo anche una versione eroica di questa leggenda, una sorta di mito dell'empirismo, secondo la quale Galileo sfida la scienza aristotelica dimostrandone la falsità, davanti ai professori e agli studenti riuniti dell'Università di Pisa, per mezzo di qualche esperimento riuscito, dall'alto della torre. Questa storia, scritta per la prima volta dopo i presunti esperimenti ed in seguito ripresa di nuovo e di nuovo dagli storici della scienza, che l'adornano di ulteriori dettagli, contraddice tutte le usanze accademiche del tempo; lo stesso Galileo, che dal suo piedistallo dominava l'arte di esibire i suoi propri meriti, non ne fa mai menzione; anzi, gli esperimenti, come vengono descritti, avrebbero fallito. Effettivamente Galileo ha descritto nella sua voluminosa opera con molta esattezza i metodi impiegati che lui stesso aveva sviluppato; e non sorprende che siano assai diversi da quelli che racconta la leggenda. Il procedimento tipico viene illustrato, nella terza giornata dei Discorsi del 1638, attraverso l'esempio della caduta libera. Non inizia con un'osservazione, ma con una definizione matematica: "Chiamiamo movimento uniformemente accelerato quello che, partendo dal riposo, acquisisce in tempi uguali un uguale aumento della velocità". Segue una proposizione matematica: "Se un oggetto, partendo dal riposo, cade con un movimento uniformemente accelerato, la distanza percorsa in un tempo qualsiasi da quello stesso oggetto è in ragione doppia al tempo, cioè il quadrato di quello stesso tempo"; proposizione che viene prima dimostrata matematicamente. Solo dopo comincia la dimostrazione empirica, non sotto forma di osservazione che possa realizzarsi solo alla semplice vista, ma secondo istruzioni per creare condizioni sperimentali che si avvicinino il più possibile all'ideale del movimento uniformemente accelerato.
Si tratta, insomma, di creare deliberatamente una situazione che si avvicini il più possibile alle condizioni ideali che suppone la costruzione matematica. L'esperimento non può evidentemente essere mai all'origine dell'indagine in questione; esso può essere solo il suo risultato, dal momento che le condizioni sperimentali devono essere create in funzione di una finalità, e ciò può essere fatto solo conoscendone lo scopo, e sotto la direzione della teoria.
Non si insisterà mai abbastanza sulla differenza fra osservazione e sperimentazione. Ignorare tale differenza ha indotto in errore molte persone, come per esempio Émile Strauss che, nella sua introduzione alla sua traduzione tedesca del 1890 dei Dialoghi di Galileo, fa valere, come prova della superiorità della scienza moderna sui modelli del pensiero medievale ed altri, "la falsa, e anche stupida, affermazione aristotelica (...) secondo la quale la velocità di caduta di un corpo è proporzionale al suo peso ed inversamente proporzionale alla densità dell'ambiente". La frase offre un ottimo esempio del pensiero tipico dell'Illuminismo che crede che la sua propria forma di conoscenza sia l'unica possibile e che i membri delle altre culture, che pervengono a risultati diversi, devono essere necessariamente stupidi o ciechi. Il fatto è che Aristotele non è per niente in errore, quando si tratta di osservazione quotidiana. In altre parole, Galileo, procedendo come viene raccontato dalla leggenda della torre di Pisa, sarebbe giunto ad un risultato simile. Il risultato del tutto diverso di Galileo, formulato come legge della caduta dei corpi, è dovuto ad un metodo assai distinto che consiste precisamente, fra l'altro, nel fare astrazione della "densità dell'ambito". La sua verifica sperimentale presuppone che possono essere create delle condizioni sperimentali che permettono di trattare la densità come un fattore trascurabile. Come sappiamo, gli esperimenti possono fallire. In una lettera a Carcaville del 1637, Galileo sottolinea che questo non toglie valore alle riflessioni teoriche: "Se l'esperienza dimostra che le proprietà che abbiamo dedotto trovano conferma nella caduta libera dei corpi naturali, possiamo affermare senza rischio di ingannarci che il movimento della caduta concreta è identico a quello che abbiamo definito e presupposto; se questo invece non è il caso, le nostre dimostrazioni non perdono, tuttavia, niente della loro forza e consistenza, dal momento che deve valere solo il presupposto che abbiamo stabilito". Nella terminologia moderna del XX secolo, che ha convertito la matematica in disciplina autonoma, ciò significa che la correzione delle dimostrazioni matematiche non dipende da alcuna verifica empirica: un principio che oggi viene considerato evidente; bisognava, però, che a qualcuno venisse l'idea di affrontare in tal modo la conoscenza della natura.
In realtà, delle rappresentazioni astratte e anche dei movimenti del tutto irreali che non vengono osservati possono avere un senso; la fisica vive proprio di questo (e insieme ad essa, tutte le scienze matematiche della natura), quanto meno a partire da Isaac Newton (1642-1727). Nei suoi Principia, Newton realizza una fondazione matematico-deduttiva ed unificatrice dei movimenti celesti e della fisica sublunare. Per far questo, bisognava estrarre dal concetto galileiano di movimento (che non è un concetto empirico ma matematico) la conseguenza estrema, quella di "spiegare la realtà per mezzo dell'impossibile". Illustriamo ed esaminiamo alcuni dei suoi assiomi: "Ogni corpo preserva il suo stato di riposo o di movimento uniforme in linea retta nel quale si trova, a meno che qualche forza non agisca su di lui, e non lo costringa a cambiare di stato". Si tratta per così dire di una legge naturale al congiuntivo: un tale movimento lineare uniforme non è mai stato osservato, e Newton sa che esso non può esistere, dal momento che conformemente alla sua stessa legge di gravitazione non esiste spazio in cui non agisca una qualche forza. Questo non gli ha impedito, tuttavia, di inserire all'inizio dei suoi Principia una legge la quale non è suscettibile di alcuna verifica empirica immediata: "Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice applicata e si effettua seguendo la retta per la quale si impone". Di nuovo, ogni esperienza empirica immediata milita contro Newton e, ancora una volta, in favore di Aristotele, il quale affermava che è necessaria una forza per mantenere un movimento, mentre il cambiamento (diminuzione di velocità) si produce da sé. Il concetto di forza, centrale nella teoria di Newton, è anch'esso di natura non-empirica: le forze non si lasciano osservare né misurare direttamente; quello che può essere misurato sono solo gli effetti che la teoria attribuisce loro. Nei nostri tempi, siamo abituati a vedere il mondo alla luce delle concezioni e dei principi fondamentali della scienza moderna, a tal punto che crediamo di averli tratti dall'esperienza e dall'osservazione. "Non ci rendiamo conto dell'audacia dell'affermazione di Galileo secondo la quale « Il libro della natura è scritto in caratteri matematici », allo stesso modo non siamo coscienti del carattere paradossale della sua decisione di trattare la meccanica come una branca della matematica, cioè a dire di sostituire il mondo reale dell'esperienza quotidiana con un mondo geometrico ipostatizzato." (Koyré); l'audacia di dedurre delle proposizioni circa la natura, contro ogni plausibilità empirica, dei concetti matematici come il tempo, lo spazio ed il movimento. La concezione della natura che ne consegue, e che ci sembra così evidente, sarebbe stata giudicata erronea e perfino assurda nell'antichità greca o nel Medioevo.


E' soprattutto la descrizione precisa che Galileo ci offre, della sua maniera di procedere, ad aver reso possibile la determinazione sistematica del metodo che si è formato durante il periodo di tempo che separa Copernico da Newton, e che è ancora fondamentale per le scienze matematiche della natura. Un esame critico rivela che questo metodo si fonda su una serie di proposizioni fondamentali che si sostengono reciprocamente, ma che a loro volta non sono suscettibili di alcuna base empirica e che, al contrario, precedono ogni conoscenza scientifica. Le scienze matematiche della natura si fondano sulla supposizione che esistano delle leggi della natura universalmente valide, cioè indipendenti dai luoghi e dai tempi. Questa supposizione non può essere dimostrata dalla semplice osservazione; la realtà sembra piuttosto disordinata ed irregolare. La scienza aristotelica sostiene che le sfere celesti obbediscono a delle leggi del tutto distinte da quelle del mondo sublunare, se possiamo dire che parlasse di leggi nel nostro stesso senso, poiché l'idea delle leggi universali della natura presuppone il concetto oggettivo di un tempo lineare e divisibile in valori discreti, insieme ad un concetto di spazio omogeneo ( e non, per esempio, diviso in sfere ). (...)
La realtà disordinata e variegata non può essere misurata; e pertanto si procede in un'altra maniera, come mostrano, per esempio, tutti gli scritti di Galileo e di Newton. All'inizio, c'è una sperimentazione mentale, cioè a dire la formulazione delle condizioni ideali (cosa accadrebbe se ...) dalle quali si possono dedurre certe conclusioni per mezzo dei processi matematici. Tanto le condizioni ideali che le conclusioni matematiche vengono poi sottoposte a verifica sperimentale, le une come condizioni-quadro che bisogna osservare con precisione, le altre come indicazione di che cosa misurare. L'esperimento può aver luogo solo sulla base di tali condizioni. Un buon sperimentatore dev'essere capace di inventare dei dispositivi sperimentali che avvicinino il più possibile alle condizioni ideali postulate e che, allo stesso tempo, rendano possibile le misurazioni desiderate, senza cui il processo di misurazione (intervento fisico dello sperimentatore) interferisce nello sviluppo ideale; ciò costituisce, come si sa, tutta una scienza a parte che, soprattutto nella fisica del XX secolo, richiede un immenso apparato tecnico. La ripetibilità viene considerata come il criterio per la riuscita di un esperimento: ogni volta che si creano delle condizioni identiche, deve prodursi il medesimo effetto, e le misure devono mettere in evidenza un risultato identico. Il fatto che la ripetizione reale degli esperimenti non porti mai a dei risultati esattamente identici, anche nell'intervallo stesso di errore, non viene considerato come un argomento contro; dal momento che il metodo sperimentale si fonda sulla supposizione che i fenomeni da osservare si compongono, da una parte, di leggi della natura, formulabili in termini matematici, e , dall'altra parte, di cosiddette interferenze che sono, per così dire, delle leggi della natura che ancora non controlliamo. Un esperimento è un'azione, un intervento attivo nella natura, orientato a creare artificialmente delle situazioni in cui le interferenze vengono eliminate. I fenomeni naturali appaiono piuttosto disordinati; visti attraverso le lenti del metodo scientifico-matematico, si presentano come l'effetto di un insieme di leggi di natura. Per conoscere una sola di queste leggi, bisogna eliminare le altre, cioè a dire assicurarsi che questi effetti si mantengano costanti. In questo processo analitico, di decomposizione del fenomeno in fattori isolati, risiede il legame fra scienza della natura e la tecnica: in quanto e nella misura in cui siamo riusciti ad isolare i fattori individuali, diventa possibile ricomporli a volontà e sintetizzarli in sistemi tecnici.
Immanuel Kant, che ha dedicato dieci anni della sua vita all'attività scientifica, riassume come segue il metodo scientifico-matematico nel prologo alla seconda edizione della "Critica della ragion pura" (1787): "La ragione deve presentarsi alla natura tenendo in una mano i suoi principi, che soli possono dare a dei fenomeni concordanti l'autorità di legge, e nell'altra le esperienze che essa ha costituito secondo questi stessi principi. Ella domanda di essere istruita, non come uno scolaro che si lascia dire tutto quel che piace al maestro, ma come un giudice che ha il diritto di costringere i testimoni a rispondere alle domande che vengono loro poste. La fisica è perciò responsabile della felice rivoluzione che ha avuto luogo nel suo approccio a questa semplice idea, che ella deve, non dico immaginare, ma cercare nella natura, conformemente alle idee che trasporta la ragione stessa, ciò che vuole apprendere, ma che non potrebbe mai conoscere da sola. E' così che ha fatto ingresso nel vero cammino della scienza, dopo aver proceduto a tentoni per molti secoli."
Il passaggio mette in evidenza, da una parte, il ruolo importante che Kant attribuisce ai "principi della ragione" che non possono essere dedotti dalla conoscenza empirica (l'apriori kantiano). Si risolve così il problema per cui Hume era scettico e che oggi ancora tormenta gli empiristi moderni: il problema di sapere come sia possibile una conoscenza oggettiva. D'altra parte, nel linguaggio di Kant, traspare il pensiero dell'Illuminismo, che considera la "ragione" come una proprietà o una capacità universale del genere umano e, tuttavia, la reclama esclusivamente per sé stesso, negandola alle culture esterne o anteriori. Facendo astrazione di questo pregiudizio, bisogna constatare che il metodo matematico-scientifico ha dovuto imporsi, in effetti, contro il pensiero medievale, al punto che si è realizzata la formula della "rivoluzione del modo di pensare"; solo che questa rivoluzione ha aperto il cammino ad una ragione che è specifica dell'epoca borghese, a fronte di una ragione del Medioevo che era molto diversa: non c'era alcun motivo assoluto per una tale evoluzione.
Il concetto di "conoscenza oggettiva" acquisisce così un significato distinto dal nostro abituale utilizzo linguistico, che è quello di una conoscenza astorica, indipendente dalle forme di società e valida in identica maniera per tutti gli esseri umani. Sarebbe impossibile convincere , della verità della conoscenza scientifica della natura, un membro di una cultura distinta o anteriore che non riconosce i presupposti fondamentali del metodo matematico-scientifico, cioè a dire i principi della ragione borghese. L'unica parte della scienza che gli si potrebbe dimostrare plausibile è la sperimentazione: quando realizzo l'azione A, definita fino al minimo dettaglio (cosa che potrebbe sembrargli rituale o grottesca), si produce normalmente l'effetto B. Ma non ne consegue niente di più, tanto che il mio interlocutore non condivide la mia supposizione fondamentale secondo la quale delle leggi universali della natura si esprimono nella sperimentazione, credendo, al contrario, che il fenomeno naturale è arbitrario e senza regole. I successi palpabili del metodo matematico-scientifico sono innegabili. Sono visibili, per esempio, sotto forma di sistemi tecnici, cioè di sistemi nei quali le condizioni analoghe a quelle che caratterizzano le sperimentazioni vengono create, eliminando per quanto possibile le interferenze. Ma la verità delle credenze soggiacenti non serve forzatamente al conseguimento della riuscita di certe azioni (ed ancor meno una verità che si trovi al di sopra di qualsiasi forma di società). La pratica dell'agopuntura, per esempio, ha successo anche nei confronti di molte persone per cui la medicina occidentale non è di alcun aiuto. Ma dedurre che le credenze su cui si fonda una tale arte debbano essere delle verità, quanto meno entra in contraddizione con le conoscenze scientifiche del corpo umano. Il fatto che il pensiero scientifico sia riuscito ad imporsi su scala mondiale a fianco della società delle merci può servire ancor meno come argomento a favore della superiorità di questa forma di pensiero rispetto ad un altro, come si arriva a pretendere. I metodi ai quali si deve l'ascesa del sistema delle merci originario dell'Europa, in fin dei conti si conoscono bene: lo sterminio e la colonizzazione degli altri popoli, come l'utilizzo - imposto dalla logica della merce e, di conseguenza, spietato - del vantaggio commerciale e dell'avanzamento relativo [all'Europa] nel processo di modernizzazione. Si oppone a questi fatti, l'argomento per cui il modo di pensare europeo sia riuscito a "convertire" i membri delle altre culture, in quanto offriva loro delle conoscenze più profonde e più convincenti. Proprio come il pensiero scientifico che venne represso, all'inizio, dal potere della Chiesa che costrinse Galileo alla ritrattazione, e poi finì per imporsi grazie al potere della società delle merci.

Essendo evidente, il legame esterno fra la società borghese e la scienza matematica della natura, bisogna domandarsi quale sia il legame interno, o causale. Un approccio freddamente "materialista", che pretende di ridurre tutti i fenomeni sociali all'evoluzione economica (che presuppone da sempre l'economia come sfera separata), si scontra necessariamente con questo problema, anche perché  le scienze naturali hanno assunto un ruolo come forza produttiva solo a partire dell'epoca del capitalismo industriale, circa tre secoli dopo la sua comparsa. E anche se fossero già esistiti, all'inizio dell'epoca moderna, dei problemi economici significativi cui la scienza avrebbe potuto apportare una soluzione, questo non spiegherebbe i cambiamenti radicali del metodo, nel passaggio dalla scienza medievale alla scienza moderna. Alfred Sohn-Rethel ha sviluppato, con la sua tesi di una "identità segreta della forma-merce e della forma di pensiero", un ambizioso programma che pone in relazione l'emergere del pensiero astratto occidentale con la prima produzione monetaria e con lo scambio di mercato. A questo bisogna obiettare, in primo luogo, che lo scambio semplice delle merci, che Marx analizza in quanto logica preliminare della società capitalista sviluppata, non è mai esistito come formazione sociale storicamente indipendente (come sembra supporre Sohn-Rethel) e, in seguito, che gli antecedenti del capitalismo industriale, fino al capitalismo mercantile e usuraio, hanno avuto luogo anche nelle altre società (in Cina o in India) senza che per questo il pensiero abbia preso la stessa direzione che in Occidente e, inoltre, senza che sorgesse una dinamica capitalista indipendente. Non voglio continuare, qui, questa discussione, perché non mi interessa il pensiero astratto occidentale in generale, ma solo la sua forma particolare che assume nella conoscenza oggettiva delle scienze matematiche della natura. Inoltre, non aspiro ad una spiegazione causale dell'evoluzione storica, per la quale mi manca del materiale, al contrario mi limiterò alle relazioni strutturali tra il metodo scientifico-matematico, descritto come un "ideal-tipo", e la logica della società delle merci nella sua forma sviluppata ed attuale. In tal modo alleggerito, il programma di Sohn-Rethel mi sembra praticabile, benché in quel che segue si limiterà a qualche osservazione.
La catena che lega insieme la società delle merci e la forma oggettiva di conoscenza è il soggetto borghese, cioè a dire la forma costitutiva e specifica della coscienza che, da una parte, si esige per rimanere nella società delle merci e del denaro e che, d'altra parte, deve consentire al soggetto di accedere ad una conoscenza oggettiva. La forma-merce, cioè a dire la determinazione sociale delle cose in quanto merce nella società borghese moderna si è trasformata in una forma universale, dovuta al fatto che il capitalismo ha reso la forza lavoro una merce di cui i suoi portatori dispongono liberamente: cioè liberi da ogni dipendenza personale, liberi da ogni pressione comunitaria, salvo quella che li obbliga a guadagnare del denaro. Ma questa pressione impersonale è universale, di modo che il denaro si è trasformato nell'unica finalità di tutto il lavoro, e la vendita della propria forza lavoro in forma predominante di riproduzione. Nella società delle merci, la soddisfazione di qualsiasi necessità concreta dipende dal denaro. La necessità di poter disporre del massimo denaro possibile si trasforma così nel primo "tornaconto", uguale per tutti i membri della società, benché essi debbano perseguirlo in competizione fra di loro, gli uni contro gli altri, come delle monadi economiche. Il soggetto dello scambio di mercato, libero ed uguale secondo un tale senso astratto, si immagina egli stesso come individuo autonomo che guadagna onestamente di che vivere con il suo lavoro. L'apparente autonomia dell'individuo corrisponde all'apparente naturalezza del processo economico, che si presenta alle monadi economiche come un processo retto da delle leggi, descrivibile unicamente per mezzo dei concetti della teoria dei sistemi che le scienze della natura hanno messo a punto. In entrambi i sensi, il soggetto borghese è incosciente della sua propria condizione sociale: senza nessun altro obbligo che quello di assicurare la sua propria sopravvivenza (con la quale, tuttavia, non può realizzarsi in quanto individuo), egli alimenta con il suo lavoro astratto la mega-macchina della valorizzazione del capitale, del cui funzionamento, d'altra parte, non si assume nessuna responsabilità, poiché lo sperimenta come governato da delle leggi naturali immutabili. Il legame tra la possibilità di una conoscenza oggettiva e la coscienza della propria identità è stata già sottolineato da Hume e Kant, con le differenze che sono loro proprie. Per l'empirico e scettico Hume, non solo la rappresentazione di un oggetto identico, ma anche la coscienza dell'identità personale, sono illusioni metafisiche, dal momento che non si possono dedurre dall'esperienza. Le argomentazioni di Kant sono complementari: dal momento che la conoscenza oggettiva è un fatto, e, pertanto, possibile, mentre le sue condizioni di possibilità non possono essere dedotte dall'esperienza, come ha dimostrato Hume, queste condizioni devono darsi a priori, prima di ogni esperienza. La conoscenza oggettiva presuppone un soggetto che sia capaci di costituire gli oggetti dell'esperienza come oggetti identici, cosa che presuppone anche la coscienza di un io identico a sé stesso. La coscienza dell'identità non può essere dedotta dall'esperienza; essa è un prerequisito di ogni conoscenza empirica. Ma non è innata all'essere umano in quanto tale, ma è piuttosto una costruzione sociale. Per precisare cosa sia la costituzione di un soggetto capace di conoscenza oggettiva, conviene esaminare i requisiti imposti dal metodo scientifico-matematico. Analizzando i precetti attuali, formulati in maniera imperativa, che ci vengono dati dai manuali di fisica sperimentale per la realizzazione di esperimenti (eliminazione del "fattore soggettivo", mantenendo però la condizione di osservatore), Greiff ci mostra come essi si riferiscono ad un soggetto la cui intelligenza non dipende dai sentimenti: questi sono quelli che bisogna rimuovere. L'intervento nella natura supposto dall'esperimento è, innanzi tutto, un intervento dello sperimentatore su sé stesso: la rimozione della sua corporeità e dei suoi sentimenti. In tal modo si produce l'illusione secondo la quale il soggetto non avrebbe niente a che fare con il processo di conoscenza: "Poiché apparentemente il soggetto, una volta rimosso, non interviene più di nuovo nell'atto cognitivo, sembra essere qualcosa di imbarazzante, o quanto meno superfluo, ai fini dell'oggettività della conoscenza. Il fatto che l'osservatore, durante l'atto cognitivo, deve concepirsi come un fattore di interferenza e di distorsione che dev'essere eliminato, produce la convinzione per cui la verità risiede nella natura e non nella conoscenza della natura; la convinzione per cui la la regolarità obbedisce a delle cause naturali e si allontana dalle cause umane. Queste produce l'illusione che le leggi siano le proprietà della natura stessa e che esse si manifestino in tutto il loro splendore se non hanno alcun soggetto. Ma si tratta di una mera illusione; poiché l'eliminazione del soggetto costituisce anche un atto soggettivo, un'operazione che il soggetto stesso deve realizzare. (...) [La conformità a delle leggi] è qualcosa che lo scienziato stesso produce obbedendo a delle regole determinate ed esplicite. Se non si omettessero gli atti prescritti, non si arriverebbe a conoscere la natura in quanto sottomessa a delle leggi, vale a dire che al posto della conoscenza oggettiva e conforme a delle leggi, si avrebbero solamente delle percezioni che varierebbero da un osservatore all'altro."
Ogni misurazione è una relazione reciproca, con la mediazione del metodo matematico-scientifico, tra il soggetto che conosce e la natura di cui egli fa il suo oggetto; pertanto, non ci si può mai riferire alla "natura in sé", ma unicamente a questa forma specifica d'interazione. La relazione soggetto-oggetto prodotta dall'esperimento ed espressa sotto forma di legge non può semplicemente essere ridotta ad uno di questi due poli, come potrebbe suggerire un culturalismo rigido. Le leggi della natura non sono né il prodotto di un discorso arbitrario, facendo astrazione del lato oggettivo, né le semplici proprietà della natura che nulla hanno a che fare con i soggetti conoscenti. L'illusione che fa sembrare la regolarità prodotta dalla sperimentazione come se fosse una proprietà della natura. è la stessa illusione per cui il progresso sociale cieco della società delle merci si presenta agli uomini come un processo retto da leggi, esterne ad esso, quando in realtà sono loro a costituirle attraverso la loro azione come soggetti borghesi.
Il soggetto in quanto "attore cosciente che non è cosciente della sua propria forma" (Kurz) conosce sé stesso in quanto separato dalla natura e dagli altri soggetti, e da ciò che egli sperimenta come un semplice "mondo esteriore"; con il quale viene presupposto inconsciamente il quadro sociale totale, specifico alla società borghese, la quale produce una tale forma di coscienza. La relazione sistematica della forma-merce, oggettivata in questo modo, costituisce anche l'uguaglianza dei soggetti, oltre che la forma oggettiva della conoscenza presupposta: l'uguaglianza in quanto monade-merce e monade-denaro, cittadini adulti e responsabili, dotati di diritti uguali e sottomessi alle stesse regole e alle stesse leggi. Ma quest'uguaglianza deve prodursi prima di un'azione del soggetto stesso: azione che disciplina i corpi e le menti, oggettivizza le proprie capacità e gli stati psichici, scinde le singolarità individuali. E' questo, peraltro, il piano di studi, non del tutto segreto del concetto humboldtiano della "formazione attraverso la scienza", adottato dalle università tedesche, con un approccio pratico alla "identità segreta della forma-merce e della forma del pensiero" ben prima che Sohn-Rethel lo formulasse teoricamente. Anche Schopenhauer, che odiava la matematica, ha dovuto riconoscere un indubbio effetto di autodisciplina a tale piano di studi. Evidentemente, aveva poco da obiettare all'autodisciplina ed al pensiero ordinato di per sé. La dissoluzione di ogni pensiero nel "sentire" non mina la forma-merce (perché è essa che produce la separazione fra "corpi" e "spirito", tra "sentire" e "pensare"); non diviene nemmeno oggetto di rivolta ma viene piuttosto abbandonata ai processi oggettivati, semplice compensazione carnevalesca del controllo quotidiano. Quel che bisogna criticare è l'incoscienza con la quale si inculca la disciplina del pensiero oggettivo, osservabile in qualsiasi classe dei matematica nella quale si apprende fin dall'infanzia la matetica nella sua forma attuale, senza menzionare la sua genesi storica né il suo rapporto con la società. E' lì l'addestramento, la produzione della coscienza incosciente della sua forma: apprendere delle regole formali e dei calcoli senza il minimo contesto di senso, finché si sviluppa intellettualmente la propria logica e non si pone più la questione del senso. La scissione delle singolarità individuali, cui deve sottomettersi il soggetto conoscente al fine di non danneggiare l'esperimento, è la stessa scissione cui egli sottomette, nell'astrazione matematica della sperimentazione mentale, gli oggetti della sua contemplazione: facendo astrazione delle loro qualità, e anche di ogni cosa concreta. Ricordatevi la definizione galileiana del movimento uniformemente accelerato o il famoso "centro di gravità" della meccanina newtoniana. Il criterio essenziale della deduzione matematica è che la realtà concreta si mantiene separata da essa. La storia della matematica a partire da Galileo si caratterizza per un isolamento crescente a fronte di questo frazionamento del pensiero umano, che sempre di più si insinua dalla porta di servizio, minacciando di "confondere" il pensiero matematico. Se fino al XIX secolo, l'opinione che i matematici hanno di sé stessi è contrassegnata dal ruolo del linguaggio nel quale viene scritto, a dire di di Galileo, il libro della natura, mantenendo in questo modo un qualche legame con il concreto, nel 1900 i matematici si costituiranno, col programma formalista di David Hilbert, in scienza per diritto proprio, consistente nell'applicazione di regole fisse per la trasformazione delle catene di segni, cui già non si attribuiva alcun significato di contenuto. Non è per caso che una tale evoluzione di produca allo stesso momento in cui la forma-merce viene ad imporsi universalmente come principio di socializzazione, e i rapporti di dominazione e di dipendenza personale, ereditati dal feudalesimo, sono stati ormai soppiantati in gran parte dalle regole formali che governano tutti in modo identico e non servono giù più a nessuna finalità individuale. Nel XX secolo, la matematica come nucleo astratto delle scienze "matematiche" della natura si erge a "disciplina regina" (Hilbert) di cui nessuna altra scienza desidera più fare astrazione. La fine dei modelli della fisica classica, evidentemente astratti, però estratti dall'esperienza, fa anch'essa parte di quest'evoluzione; modelli che nella fisica delle particelle elementari, per esempio, vengono sostituiti da dei modelli puramente matematici, slegati da qualsiasi analogia meccanica, di modo che ora possiamo leggere nelle riviste di divulgazione che lo spazio "in realtà" è curvo ed è a undici dimensioni. Asserzione che rimane non di meno un mero fantasma.
   *
La questione che ne consegue è quella del ruolo e della forma che le scienze naturali, come attività o come istituzioni, devono e possono avere in una società post-capitalista. Nella misura in cui le scienze naturali ampliano le possibilità dell'azione umana, esse costituiscono uno strumento utile cui non si dovrebbe rinunciare. Ma le "scienze naturali come religione del nostro tempo" (Pietschmann), che innalzano a proprietà della natura la regolarità prodotta dalla forma di conoscenza oggettiva ed innalzano a visione cosmica la natura retta da delle leggi, determinando quello che vediamo e quello smettiamo di vedere, questa scienza non sopravvivrà alla nostra epoca moderna. L'immagine della "natura" è sempre stata un'immagine socialmente costituita; e non c'è ragione perché una società liberata da qualsiasi forma universale-astratta ed incosciente debba avere ancora bisogno di un'immagine unitaria della natura, obbligatoria per tutti allo stesso modo e in qualsiasi momento.

- Claus Peter Ortlieb -

fonte: EXIT!


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