IL LINGUAGGIO DELLA SCRITTORE (poche idee e un po' confuse)

Da Gianbarly

Donna che scrive - J. Vermeer

Comincio qui una mia nuova digressione sulla scrittura, sempre partendo da una sollecitazione esterna. Questa volta è Medina che mi scrive una mail accorata, che sintetizzo così:
“Ho pensato che il mio modo di scrivere è arcaico e stucchevole, soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia. A me piace, ma forse dovrei vivacizzarlo un po’? Capisci l’importanza di pezzi ‘freschi’ un po’ più corposi? Probabilmente lo stile che piace ai ‘Young-adult’ (target di mercato editoriale) è un altro.”
Qual è, quindi, il linguaggio giusto?
Partirò dicendo che è giusto un linguaggio adeguato allo scopo che ci si prefigge. Se si pensa ad un preciso segmento di lettori - gli young adult, ad esempio – è evidente che si debba utilizzare uno stile di scrittura, un linguaggio che risulti riconoscibile, che sia vicino alle aspettative di quello specifico gruppo. Se lo scopo è il successo, un successo ampio, enorme, mondiale, come quello della Rowling, saremo costretti ad usare un linguaggio alla portata di tutti, non particolarmente settario.
Lo scopo è importante. Sia a livello generale, che per la singola opera. Giusto per chiarire il concetto, quando cito il livello generale, parlerò un po’ di me stesso. Io ho cominciato a scrivere circa un anno e mezzo fa. La mia si può definire una vocazione tardiva, nata per un’esigenza interiore, per avere uno spazio mentale tutto mio. Non per pubblicare o per puntare al successo. Tuttavia, ho avuto in mente da subito un mio obiettivo, smisuratamente ambizioso. Quello di trovare un linguaggio adeguato ai tempi che stiamo vivendo. Tempi di grandi cambiamenti, probabilmente molto più grandi e profondi di quello che ci appare. I nuovi mezzi (Internet, Wikipedia, Facebook ecc…), la globalizzazione (e tutto ciò che ruota intorno a questo) stanno cambiando l’uomo. Il suo modo di pensare, di vedere la realtà, i suoi valori ed obiettivi, le regole del gioco. Tutto cambia in fretta e noi oggi non abbiamo occhi per vederlo. In questo l’arte, tutte le arti, sono terribilmente indietro. La musica, che normalmente è la prima a cogliere il nuovo, è ferma a quarant’anni fa. Non parliamo del resto. Ecco, il mio sogno è quello di trovare un linguaggio che sia in grado di svelare queste novità. Medina, che conosce il mio stile di scrittura, può ben valutare quanto questa ambizione sia abissalmente distante dall’essere realizzata. Perciò sento che la mia scrittura è antica e inadeguata. Ma non smetto di sperimentare approcci differenti, anche se so che non raggiungerò mai l’obiettivo.
Il linguaggio è il modo con cui si trasmette il messaggio e le emozioni che si vogliono suscitare. Per cui diventa terribilmente importante. Basta pensare al Bob Dylan degli inizi degli anni ’60 come risultava “giusto”, soprattutto se paragonato alla musica ufficiale che passava alla radio ed in TV nell’Italia di quegli anni. O cercare di immaginarsi come sarebbe stonato l’utilizzo del linguaggio (pur sublime!) di Guy de Moupassant in un racconto di oggi. I linguaggi si consumano e si rinnovano, come tutte le cose. Non esistono modelli, né si possono confezionare ricette. La magia dello scrittore (quello vero, ahimè!) sta proprio nel trovare il linguaggio che è in grado di trasportare l’idea dentro il cervello e dentro la carne del lettore.
E allora, quali caratteristiche deve avere lo stile narrativo? Per spiegarlo ricorrerò ancora a quel fondamentale libretto che è “Lettere a un aspirante romanziere” di Mario Vargas Llosa. Dice l’autore che uno scritto è buono se ha un forte potere di persuasione. Perché lo stile della scrittura deve portare il lettore ad uno stato di sospensione (più o meno profondo) che gli consenta di vedere come reali i fatti che gli vengono narrati, anche se assolutamente fantastici. Solo se si crea questa magia si ha una vera opera di finzione. E’ questo stato di sospensione (che tutti noi abbiano provato leggendo qualcosa che ci piaceva) che fa passare le emozioni. “L’efficacia della scrittura romanzesca dipende da due fattori: la sua coerenza interna e il suo carattere di necessità”. Come spiegarlo meglio! Llosa si dimostra uno scrittore formidabile anche quando parla di questioni che sarebbero aridamente tecniche (assieme a questo suo libro mi hanno regalato anche il “Ricettario di scrittura creativa” di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi. Ebbene, quest’ultimo l’ho trovato affatto interessante, nonostante sia ben documentato ed assolutamente completo. Ha lo stesso calore di un libretto di istruzioni). Ma torniamo a noi.
Due fattori, dicevamo. Il primo è quello che Llosa chiama la coerenza interna. Cioè uno stile di scrittura adeguato a quello che si vuole raccontare. Non possiamo usare lo stesso linguaggio in un racconto biografico e, mettiamo, in un thriller. In una delle due opere otterremo un fastidioso senso di inadeguatezza che annullerebbe immediatamente la forza di persuasione dello scritto.
Medina avrà certo capito che non ho fatto questo esempio per caso. Il fatto è che, nel pensare alla sua domanda e man mano che mi risultava chiaro quello che avrei dovuto scriverle in risposta, mi sono accorto (ahinoi!) di un problema. Gli scritti a cui lei si riferisce nella sua mail (“soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia”) fanno parte di un romanzo giallo che stiamo scrivendo a più mani. Leggendoli separatamente dal resto, sono molto belli ed estremamente interessanti. Ho sempre avuto però anche un vago smarrimento, che solo ora comprendo. Questi pezzi sembrano scritti per un progetto diverso, forse un’autobiografia e portati di peso all’interno del giallo. Intendiamoci, con questo non voglio assolutamente stroncarli. Sono, ripeto, assolutamente validi ed hanno dato l’indirizzo complessivo alla narrazione. Ma mi permetto di suggerire a Medina di rivederne proprio il linguaggio in funzione dell’opera che li contiene.
Il secondo fattore è il carattere di necessità. Ovvero quella persuasione, che il lettore fa sua, che quelle cose non possano essere raccontate che in quel modo. Che ogni altro linguaggio toglierebbe loro qualcosa. C’è un libro che amo molto, “Anni di cani” di Gunter Grass. Un libro ponderoso, di oltre 500 pagine, critto con uno stile puntuto, aspro: “La catena è già tirata: la voce del cane. La voce di Tulla. La sega circolare addenta una bora lunga cinque metri. La rettificatrice tace ancora. Adesso anche lei. Adesso la fresa. Ventisette passi di distanza fino alla porta del cortile”. Non saprei davvero come si possa raccontare in un modo diverso quella storia sulle contraddizioni della coscienza tedesca negli anni difficili del dopoguerra.
Altro sublime esempio, più vicino a noi ci viene da Camilleri, che è capace di inventarsi una lingua per calarci dentro alle atmosfere sicule del suo Montalbano “La chiamò al cellulare, ma arrisultò astutato. Anzi, per la precisione, la voci registrata disse che la pirsona chiamata non era raggiungibile. E consigliava di riprovare doppo tanticchia. Ma come si fa a raggiungere l'irraggiungibile? Solo provando e riprovando doppo tanticchia? Al solito, quelli dei telefoni tiravano a praticare l'assurdo. Dicevano, per esempio: il numero da lei chiamato è inesistente… Ma come si permettevano un'affermazione accussì? Tutti i nummari che uno arrinnisciva a pensari erano esistenti. Se veniva a fagliari un nummaro, tutto il mondo si sarebbe precipitato nel caos. Se ne rendevano conto quelli dei telefoni, sì o no?”.
Questa abile costruzione lessicale ci da l’impressione di essere entrati nella testa di Montalbano, di seguire i suoi ragionamenti nello stato naturale in cui si svolgono. Questo è il suo carattere di necessità.
Come possiamo facilmente capire non esiste una ricetta a cui attenersi per dare questo carattere di necessità al nostro linguaggio. Scrivere è un’arte anche per questo motivo.

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