Alla luce dello scorso articolo, ritengo interessante far parlare della fase di setaccio (e di molto altro ancora) proprio a chi sta praticando tale attività, ossia a uno scrittore, anzi – per meglio dire e non a caso – a un aspirante tale. La persona a cui mi riferisco è mio amico da quando eravamo entrambi due ragazzini, poi è stato mio collega all’università e nel tempo abbiamo raggiunto un alto grado di stima reciproca, tanto che anni fa egli decise di rendermi partecipe in anteprima del suo primo dattiloscritto, chiedendomi un giudizio spassionato ed eventuali consigli sull’opera. Credo sia utile, per chi fosse interessato a intraprendere “il” percorso che conduce alla pubblicazione, conoscere le tappe, le sensazioni e i dubbi a esso connessi direttamente attraverso il resoconto di chi veramente ha vissuto tale esperienza e vi si rapporta in concreto.
L’aspirante scrittore in questione non comparirà con il suo vero nome né saranno fatti nomi di altri, affinché sia chiaro che quanto segue non ha alcuna finalità promozionale; l’intento dell’articolo e della rubrica è, invece, quello di schiarire il cammino di chi si accinge alla scrittura, nonché alla carriera che da quest’ultima può scaturire. Di seguito un botta e risposta tra me e il futuro esordiente.
Dunque, perché hai deciso di scrivere l’opera che tempo addietro mi hai sottoposto?
La tipica domanda da un milione di dollari. Avevo in mente questa storia da circa un anno e l’avevo riscritta sottoforma di racconto almeno tre o quattro volte, aggiungendo via via dettagli; stava diventando quasi un’ossessione. Poi un amico lesse uno di quei racconti e mi suggerì di fare quello che avevo rimandato per molti anni: scrivere un romanzo. La scrittura mi aveva accompagnato in un modo o nell’altro per tutta l’adolescenza, ma scrivere un romanzo era qualcosa che mi metteva addosso una fifa infernale. Ho dovuto vincere molte insicurezze, una corsa a ostacoli che alla lunga, però, mi ha permesso di capire molto di me stesso.
Quali sono state quindi le maggiori difficoltà, se ne hai riscontrato, durante la prima stesura?
Credo che le difficoltà più grandi siano legate innanzitutto al metodo. Quando ti accingi a mettere nero su bianco un’idea non sempre questa assume la forma che avevi pensato e a volte ti ritrovi spaesato a guardare il foglio bianco, con il cervello in manette, senza riuscire a scrivere una parola. Mi hanno aiutato, soprattutto, i consigli di uno scrittore che apprezzo molto, questi mi ha permesso di capire che dietro un romanzo c’è tanta pianificazione e che la fase della prima stesura deve essere necessariamente preceduta da un buon lavoro di schematizzazione. Ci si deve costruire una sorta di mappa, tracciare un percorso di massima e avere con sé una “bussola”. Per me la prima stesura è stata rivelatrice, perché mi ha dato modo di conoscere i miei limiti e di comprendere la necessità di sviluppare una buona capacità di fare autocritica. Pensare di avere dato vita a un capolavoro è il primo passo verso il fallimento, bisogna trovare la forza e il coraggio di cancellare quanto già scritto, perché la prima redazione può essere completamente stravolta. Per farti un esempio, ho riscritto i primi sette capitoli del romanzo almeno dieci volte.
Quando, a chi e perché hai chiesto un’opinione sul libro?
Dopo aver rivisto la mia prima bozza privata, volevo ricevere un giudizio, così ho selezionato le persone della cui opinione mi potevo fidare e, soprattutto, quelle che non si sarebbero fatte problemi a stroncarmi. Mi sono rivolto a te, per esempio, perché sei sempre stata schietta e hai un’ampia conoscenza della lingua italiana, ma soprattutto perché sei molto precisa e mai pressappochista. Poi ho sottoposto il manoscritto a un amico, appassionato e profondo conoscitore del genere, per avere il punto di vista di un lettore smaliziato. Infine, ho chiesto un parere a un paio di persone che non avevano mai letto niente di questo tipo, per capire l’effetto che faceva. Non è facile distaccarsi dalla propria opera e osservarla con occhio critico e, soprattutto, bisogna evitare di far leggere il proprio manoscritto a chi, per sua natura o per il ruolo che ha nella nostra vita, non saprà mai esprimere un giudizio negativo.
Dunque, che effetto hanno avuto i giudizi negativi e le piccole obiezioni?
Giudizi negativi e piccole obiezioni? Accidenti! Ho ricevuto delle vere e proprie stroncature. La prima stesura del romanzo era una “tragedia”, ho rimesso mano a tutta la struttura della storia, rivisto lo stile, ricalibrato situazioni e personaggi; insomma, è stato come riscrivere daccapo l’intero libro. Però è stato giusto così, io desideravo ricevere giudizi negativi, anche se lì per lì mi hanno fatto malissimo e sono rimasto in uno stato catatonico per almeno due settimane, meditando di lasciare perdere. C’era però una voce dentro di me che continuava a insinuarsi tra i pensieri e mi spingeva a non mollare. Non so se ho fatto bene o male a seguirla, lo scoprirò quando il libro arriverà sugli scaffali, però so che mi ha aiutato a stare bene con me stesso e a capire quel era la strada da percorrere.
Perché hai deciso di inviare il dattiloscritto agli editori e tentare la pubblicazione?
Faccia tosta. Faccia tosta e una buona dose di vanità. Volevo confrontarmi con gli editori, cercare di capire se c’era una possibilità di vedere realizzato un sogno. Forse c’era anche una parte di masochismo, perché non è facile sopportare porte in faccia e fallimenti. Tuttavia, c’era una sorda incoscienza che mi spingeva a crederci e a volere tentare. Io scrivo in primo luogo per me stesso, perché mi fa sentire bene e mi permette di riversare all’esterno quello che produce la mia fantasia, una sorta di valvola di sfogo. Però non vorrei mai che quello che scrivo rimanesse lettera morta, voglio che altri possano condividere queste mie suggestioni, voglio aiutare i miei lettori (quei ‘cinque lettori’ che mi vorranno leggere) a nutrire i loro sogni. Un obiettivo ambizioso, non trovi?
Aiutare il prossimo sembra un nobile intento. «Ambizioso»? Forse. Forse presuntuoso. Forse comunque vale la pena di tentare. Tu hai tentato. Com’è andata da allora? Dopo quanto i primi riscontri?
Inviare un manoscritto a un editore significa armarsi di tanta pazienza. Non c’è alcuna certezza che qualcuno ti risponda ed è come rimanere intrappolati in un limbo invalicabile. Poi arrivano i primi riscontri (ho dovuto aspettare più di cinque mesi) e le prime proposte contrattuali. Alcune erano davvero scandalose, altre meno, altre interessanti. Ho valutato con calma e senza fretta cosa fare. Mi ero informato on line, cercando di conoscere meglio il mondo dell’editoria al fine di potere operare una scelta ponderata. Ho selezionato un gruppo di case editrici specializzate, orientandomi su quelle che ho ritenuto più affidabili e poi ho spedito anche a un grande editore. Avevo pensato pure al cosiddetto print on demand, ma sono uno di quelli che crede ancora che avere dietro la struttura di una casa editrice sia sempre meglio (anche se tra gli editori in giro ci sono una caterva di dilettanti e imbroglioni con pochi scrupoli). Io ho avuto la fortuna di potermi confrontare con un autore che aveva già lavorato con quello che sarebbe diventato il mio editore, quindi ho deciso anche in base a questo.
Qual è la fase più difficile e come la si può affrontare?
Credo che le fasi più delicate siano due. La prima è la realizzazione della struttura dell’opera (un po’ come quando a scuola si compilavano gli schemi per lo svolgimento dei temi). Bisogna liberare la mente e concentrarsi sui punti cardine, gli snodi attraverso cui si dipana la trama. La seconda, invece, è la revisione della prima bozza. Bisogna essere violenti, falciare via il superfluo, riscrivere anche interi capitoli, insomma, essere impietosi con la propria opera. Quando finisco di scrivere la prima stesura, mi prendo almeno due settimane di pausa durante le quali provo a dimenticarmi quello che ho scritto. Mi serve per prendere le distanze dal testo, un tentativo per riuscire a guardarlo con il distacco che dovrebbe essere tipico di un revisore. Poi, certo, ognuno ti potrà dare una risposta differente, però credo che essere in grado di giudicare in maniera matura il proprio romanzo sia qualcosa che in pochi sono in grado di fare con semplicità. La revisione è fondamentale, è parte integrante del processo di produzione di un’opera narrativa. Al di là dei possibili refusi – quelli possono sempre sfuggire – è necessario intervenire sulla coerenza della trama e dei personaggi, sulla verosimiglianza delle vicende (che siano conformi all’ambientazione) ecc. Tutti aspetti che non possono essere tenuti sotto controllo nel corso della prima stesura che, normalmente, viene quasi di getto. Inoltre, credo sia necessario affidare il manoscritto a qualcuno che sia in grado di rilevare possibili punti critici, zone d’ombra che magari di primo acchito non siamo stati in grado di individuare.
Sei sicuro che per chi intende cimentarsi come scrittore professionista scrivere e riscrivere sia più arduo dell’affrontare le delusioni che l’eventuale relativo fallimento può comportare?
50% e 50%. Bisogna essere forti sia per revisionare sia per sopportare il fallimento.
Quanto tempo è trascorso dal tuo primo invio alla firma del contratto?
Una decina di mesi, durante i quali ho ricevuto cinque risposte, di cui una negativa in quanto – si diceva – il romanzo non rientrava nella loro linea editoriale. Una delle risposte standard. Dopo aver firmato il contratto ho ricevuto altre due risposte, una negativa (dal colosso) e una positiva.
Ora che hai firmato un contratto di edizione e sei prossimo alla pubblicazione del libro, quali sono le speranze e quali le paure?
Col tempo ho imparato che bisogna stare con i piedi ben piantati per terra, altrimenti si rischia di fare come la paglia con il fuoco. La mia speranza è che il libro piaccia ai lettori e che anche il mio secondo romanzo e i successivi vengano pubblicati; sarebbe bello riuscire a diventare uno scrittore professionista, però è difficile, purtroppo nel nostro Paese le vendite dei libri generalmente sono molto basse. Vorrei riuscire a ritagliarmi il mio spazio, riuscire a sviluppare un mio stile riconoscibile e avere dei lettori che apprezzano quello che scrivo. Le mie paure non sono tante. Innanzitutto, spero di non avere fatto una cattiva scelta riguardo all’editore. Volere diventare uno scrittore è un po’ come lanciarsi nel vuoto senza paracadute. Io sto tentando di attutire il colpo in ogni modo possibile.
Te la senti di dare un personale consiglio a chi, come te, vorrebbe diventare uno scrittore di professione?
Non credo di avere buoni consigli, posso soltanto suggerire di non lasciarsi incantare dalle sirene, soprattutto se vengono da noi stessi. È necessario ascoltare i giudizi negativi; per quanto siano dolorosi, sono gli unici che possono aiutarci a crescere e a comprendere davvero le nostre potenzialità (se ce ne sono). Poi, è bene approfondire lo studio della lingua italiana e dei classici e, soprattutto, leggere molto, ma non a casaccio, bisogna selezionare le proprie letture e scegliere con cura. «Siamo come nani che siedono sulle spalle dei giganti», questo non bisogna mai scordarlo. In ogni caso,Carmina non dant panem, perciò agli aspiranti scrittori dico: investite sul vostro futuro e cercate di realizzarvi anche in altri ambiti professionali. Forse un giorno riuscirete a vivere di scrittura, ma la strada sarà lunga e insidiosa. Quindi, suerte!