Quindi, giunta a Bulgakov, ero pronta all'ennesimo scartavetramento cardiaco, decisa alla resa, ben prima di cominciare, senza le resistenze esercitate invano con Dostoevskij, determinata a pianificare una nuove esistenza fatta di flagellazione religiosa. Poi ho scoperto qualcosa di sorprendentemente diverso. Ho scoperto che Satana ha un biglietto da visita ed un gatto che beve vodka con indosso un cilindro. Ho scoperto che a Mosca si organizza un Gran Ballo infernale, al plenilunio, e che i cavalli galoppano lontano, fin sulla Luna, dove Gesù soffre d'insonnia. Ho scoperto che il Maestro scrisse un poema su Ponzio Pilato, facendomi invaghire della reale possibilità di dare alle stampe la mia personalissima rivisitazione sull'imene di ferro di una santa donna (qui scatta la scomunica, lo so). Ho scoperto che morire è brutto, ma che morire all'improvviso può essere anche peggio, e che avevo bisogno di Bulgakov per gestire l'enorme metafora che riduce Satana ad una nostra reale scelta, alla facciaccia brutta delle nostre responsabilità umane (Feuerbach aveva già capito tutto), e che considerare solo l'aspetto diabolico della questione, non ci impone affatto di sviscerarne anche quello beato e paradisiaco: Gesù fa la sua breve e laica apparizione, senza la pomposa magnificenza attribuitagli dall'eugenetica.
Qui il satanico Woland assomiglia più ad un Dio biblico, severo ed intransigente, che ad una peste luciferina scomoda e fastidiosa. Il Maestro e Margherita è un'opera sorprendente per humor e raffinatezza: si legge con la gaudente leggerezza censurata in molte altre opere caucasiche, un abbondante Satyricon sovietico, pericoloso, osceno e vaneggiante, ma dalla bellezza (at)tentatrice. B.
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