Il Mali: da Stato democratico a Stato fallito

Creato il 11 maggio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Fino alla primavera del 2012 il Mali poteva essere inserito nella lista dei Paesi africani che avevano da tempo intrapreso la strada della democratizzazione, superando momenti bui e avendo la capacità di rendere efficaci importanti politiche. Esperti e fonti autorevoli indicavano nel Mali un esempio di come, grazie alla collaborazione internazionale, si potessero raggiungere, anche in Africa, degli standard democratici importanti e, soprattutto, che si potessero risolvere dei problemi che per lungo tempo avevano pregiudicato la costruzione di uno Stato democratico. Nel marzo del 2012 queste speranze sono venute meno perché un colpo di Stato ha messo a repentaglio non solo la democrazia ma l’integrità stessa del Paese. È necessario analizzare le varie tappe di quel ventennio definito dagli esperti come democratico e verificare se lo è realmente stato e cosa abbia inficiato i risultati ottenuti.

Introduzione

Il Mali, il secondo paese più vasto dell’Africa Occidentale, è stato una colonia francese e dal 1960, anno dell’ottenimento dell’indipendenza, fino al 1991 ha visto alternarsi al potere governi deboli e vere e proprie dittature. Il primo presidente, Modibo Keita, salito al potere proprio subito dopo aver ottenuto l’indipendenza, dichiarò de facto la nascita di un sistema basato sul monopartitismo e rimase al potere fino al 1968, quando il suo regime venne soverchiato da un colpo di Stato. Alla caduta del regime di Keita prese dunque il potere il Comitato Militare per la Libertà Nazionale guidato da Moussa Traorè che mantenne le redini del potere a lungo, candidandosi nel 1979 come unico candidato, cercando dunque una qualche forma di legittimazione politica. Durante la presidenza di Traorè vennero portati avanti importanti piani economici volti a ridurre la corruzione e tentare un riavvicinamento alla Francia, in modo tale da stimolare la formazione di un’economia capace di esportare i propri prodotti e alimentare così le casse dello Stato. Nel 1985 Traoré si ripresentò davanti agli elettori come unico candidato: si è trattata di una tappa importante perché di fatto è stata l’ultima elezione che adottava un sistema monopartitico.

Nel 1990 Traorè, rispondendo alle pressione interne e provenienti anche dalla comunità internazionale, decise di incominciare a porre le basi per la nascita di un dibattito interno e la formazione di nuove entità partitiche. Il passaggio dal monopartitismo al multipartitismo si rivelò essere una fase molto delicata e, di fatti, non mancarono gli scontri tra i nuovi partiti emergenti e tra i rispettivi sostenitori che culminarono nel marzo del 1991 quando le forze di sicurezza maliane repressero nel sangue gli scontri di piazza. Fu l’esercito a prendere in mano la situazione, arrestando in un primo momento Traorè e sciogliendo il suo partito, permettendo la nascita di un dibattito politico tra due partiti che si erano formati in seguito all’apertura democratica concessa dallo stesso Traoré. Prendeva avvio una fase di vera e propria transizione democratica che doveva culminare nella chiamata alle urne non solo a livello nazionale ma anche a livello locale. In questo modo si poteva dare risposta alle richieste della popolazione soprattutto in quelle aree distanti dalla capitale Bamako, comprese le vaste regioni del Nord abitate anche dal popolo tuareg. Una nuova costituzione, approvata mediante referendum, nel gennaio del 1992 sancisce la nascita e l’inizio di quel lungo periodo democratico, praticamente ventennale, consolidato dalle elezione politiche prima e da quelle presidenziali poi.

Un periodo realmente democratico?

È importante conoscere quel periodo che è intercorso tra l’approvazione della nuova costituzione maliana del 1992, che sancisce l’inizio del periodo democratico, e il colpo di Stato del 2012 che sentenzia la fine di questo ventennio di pace e multipartitismo. Come già anticipato, nel mese di gennaio del 1992 viene approvato il nuovo testo costituzionale che era stato redatto da 1800 componenti della conferenza nazionale preposta a tale compito. Il 12 aprile dello stesso anno si tennero le elezioni presidenziali che proclamarono l’elezione di Konarè al secondo turno, la contestazione del risultato elettorale da parte dell’opposizione e la bassa affluenza alle urne non diedero al nuovo Presidente una forte legittimazione politica. Tali difficoltà erano sicuramente prevedibili in una struttura che si era aperta solo recentemente al multipartitismo, difficoltà che però non vennero superate neanche nelle elezioni del 1997 che videro la rielezione di Konarè. Nelle presidenziali del 1997 la affluenza al voto fu bassissima anche in seguito alla volontà di alcuni partiti (ma se ne presentarono ben 17) di boicottare il voto accusando il presidente uscente di aver favorito la propria rielezione. Questa contestazione del voto rappresentò una fase molto difficile della vita politica del Paese e infatti per le strade di Bamako si registrarono scontri tra le varie fazioni politiche e tra i rispettivi sostenitori.

Dunque dalle elezioni del 1997 erano emerse notevoli criticità, sia per il fatto che il sistema politico non era riuscito ad evitare che lo scontro politico rimanesse tale e non degenerasse negli scontri di piazza, sia perché la frammentazione politica dei partiti di opposizione non permise l’alternanza di governo o comunque la presenza di un’opposizione compatta capace di incrinare la leadership di Konarè. Il governo cercò, sul finire degli anni ’90, di mettere in atto delle riforme capaci di incentivare la partecipazione politica della popolazione e la libertà di stampa, mentre si accingeva a modificare la legge elettorale nel tentativo di favorire la rappresentanza politica dei partiti minori. Queste scelte e le esperienze del passato spinsero molti partiti ad allearsi e a formare importanti coalizioni: ben 23 partiti sostennero l’elezione di Amadou Toumani Tourè, che venne eletto Presidente nel giugno del 2002. I problemi del passato però non erano superati, infatti l’affluenza si attestò intorno al 25% e non mancarono le accuse di brogli. La frammentazione politica non venne superata e l’apertura verso un sistema elettorale proporzionale comportò la nascita di piccole entità partitiche legate a precise aree territoriali, soprattutto legate ai nascenti movimenti separatisti del Nord.

Alle elezioni del 2007 le criticità furono effettivamente minori e infatti concorsero alla carica presidenziale solamente otto candidati, rispetto ai 24 della precedente tornata elettorale; ciò permise la vittoria netta di Tourè sugli altri candidati e venne così evitata, almeno in parte, la contestazione del risultato del voto e l’accusa di brogli. Difatti le accuse ci furono, però una così netta differenza tra i primi due candidati e la presenza di osservatori internazionali in qualche modo mise al riparo da dubbi il risultato delle urne. Tourè venne rieletto presidente nonostante la sua volontà di apparire come candidato slegato dai partiti che comunque sostenevano la sua elezione, capace di convogliare l’appoggio anche dai leader dei ribelli tuareg, con i quali aveva recentemente firmato importanti accordi di pace dopo le rivolte del 2006. Nonostante ciò, il periodo che intercorse tra le elezioni del 2007 e quelle del 2012 fu caratterizzato da un inasprimento dei conflitti del Nord e una notevole decrescita del livello di sicurezza: rapimenti ed uccisioni erano all’ordine del giorno. Situazione che preoccupò soprattutto i paesi confinanti con le aree del Nord, in primis Algeria ma anche Libia, i quali richiesero al governo di Bamako di aumentare i controlli e la presenza di militari in quelle aree. Nonostante gli sforzi del governo e la mediazione del leader libico Gheddafi, da sempre vicino alle popolazioni tuareg, gli attacchi terroristici non si attenuarono e anzi incominciarono a colpire la popolazione in città importanti, come quella di Gao.

La mai risolta questione del Nord

Sul periodo di pace e democrazia del Mali pesa la questione del separatismo del Nord. I Movimenti separatisti sono stati responsabili di importanti azioni volte a compromettere il processo di democratizzazione, cercando così di aumentare il proprio peso all’interno del dibattito politico. Il Nord è sempre stato scarsamente popolato, soprattutto se confrontato al Sud del Paese, e per questo ha sempre avuto una valenza politica inferiore rispetto all’area di Bamako. Le richieste della popolazione, soprattutto in merito al decentramento del potere, venivano puntualmente disattese. La parte settentrionale è profondamente diverso rispetta al meridione – infatti la capitale Bamako si trova nel Sud, dove determinati problemi, come ad esempio la siccità e le carestie sono meno rilevanti, mentre il Nord, principalmente desertico, è scarsamente popolato ed il suo mancato sviluppo è legato alle problematiche appena citate. Dunque le due aree hanno, da sempre, presentato problemi diversi e per questo la popolazione ha a lungo richiesto, come già detto, un decentramento del potere capace di prendersi carico degli impegni, assegnando una maggiore autonomia a quei territori. Proprio nei primi anni del 1990 si credeva che la questione potesse essere risolta, o quanto meno in via di soluzione, in seguito agli accordi di Tamnrasset, grazie ai quali si era trovato un accordo, venendo incontro proprio alle richieste di autonomia. Queste istanze, mosse dalla popolazione del Nord, non erano fine a se stesse: ciò che questi cercavano non era un’autonomia tout court, bensì pensavano che, nel momento in cui avrebbero avuto maggior potere, le amministrazioni locali sarebbero state in grado di dare rilancio all’economia. Il periodo di insicurezza nasceva proprio nel momento in cui vi era stato un ulteriore peggioramento della situazione economica e sociale nel settentrione; per questo motivo era necessario un piano volto a reintegrare nella società centinaia di ex combattenti, evitando così che potessero imbracciare di nuovo le armi.

La struttura statale maliana è concepita per conservare il potere al centro di essa. Questo è un pesante ed evidente lascito del periodo coloniale, e per questo vi è la necessità di un decentramento non solo amministrativo ma anche politico. Per fare ciò bisogna in qualche modo proteggere e rafforzare il diritto d’associazione attraverso non solo le associazioni ma anche le ONG presenti nel Paese. In quest’area non è mai stato portato avanti un piano di ampio respiro capace di permettere uno sviluppo del capitale umano durevole, soprattutto adatto a coinvolgere anche le fasce sociali più a rischio emarginazione, come ad esempio le donne. La presenza di un capitale umano valido avrebbe compensato la limitata presenza di risorse naturali e avrebbe permesso uno sviluppo nel lungo periodo slegato da fenomeni aleatori, come ad esempio i periodi di siccità e carestie. Dando ormai per comprovato il legame tra situazioni di insicurezza e sottosviluppo, è necessario sottolineare come poco è stato fatto per cercare di ridurre gli alti tassi di violenza nel settentrione, soprattutto per quanto riguarda la confisca delle armi leggere dalle mani della popolazione. La presenza del banditismo scoraggia sia gli imprenditori locali sia quelli stranieri, che valutano come eccessivamente rischioso un investimento in un’area in cui l’economia è paralizzata e nelle mani di entità terze rispetto allo Stato. Anche per questi motivi le ONG hanno in parte contribuito a questa situazione poiché sono state spesso reticenti a collaborare con le figure politiche e le forze di sicurezza statale: a loro dire una scelta simile sarebbe stata contraria alla deontologia propria delle ONG. Motivazione per certi versi corretta visti gli alti tassi di corruzione riscontrati sia tra le forze di polizia che tra gli esponenti politici e la commistione tra traffici illeciti e componenti delle forze armate. La morfologia del territorio determina dei costi maggiori per il controllo della sicurezza rispetto ad altri Stati o ad altre aree dello stesso Mali: infatti l’area desertica comporta la necessità di mezzi adeguati, come ad esempio elicotteri e veicoli, ben al di fuori dalla portata del bilancio nazionale.

Col passare del tempo i movimenti indipendentisti e i gruppi legati al banditismo in qualche modo hanno visto convergere i rispettivi obiettivi seppur per ragioni diverse: infatti gli indipendentisti ritenevano che se avessero avuto un’autonomia assoluta avrebbero potuto risollevare più facilmente l’economia del Nord mentre i banditi avrebbero tratto guadagno da una minore presenza di controllo nell’area. Questi ultimi, grazie agli introiti provenienti dal traffico di droga, di armi e di uomini, disponevano di importanti risorse che invece gli indipendentisti non possedevano, e su questa convergenza di intenti hanno attirato l’attenzione anche dei gruppi fondamentalisti islamici che potevano così tentare di formare uno stato indipendente islamico utile al jihad.

Come cambia la geopolitica

Dunque nel giro di pochi mesi il Mali cambia completamente faccia poiché non è più l’esempio di come un Paese che ha avuto una storia di instabilità possa divenire un Paese democratico, ma bensì diventa l’ennesimo caso di un Paese fortemente instabile, addirittura che rischia una vera e propria secessione territoriale. In quel ventennio il Mali era diventato non solo un più affidabile alleato della Francia rispetto al passato, ma anche un importante baluardo democratico in un’area instabile ma al tempo stesso molto importante sia dal punto di vista strategico, sia dal punto di vista economico. La scoperta di importanti giacimenti di risorse come il gas ed il petrolio poteva rivelarsi, per Francia ma anche per Stati Uniti, una ragione valida per promuovere investimenti nel Paese. Se è vero che la Repubblica Popolare Cinese investe anche in Paesi con conclamati casi di corruzione o di regimi dittatoriali, per gli Stati Uniti e più in generale per i Paesi occidentali questo può essere di certo un problema, non già per un’etica governativa ma per il rischio che l’opinione pubblica possa non appoggiare la possibilità di entrare in affari con questi Paesi. Il Mali, nonostante non disponga di uno sbocco al mare, si trova nel centro dell’Africa Occidentale e questo, insieme alla vastità del suo territorio, fa s+ che un così grave sconvolgimento politico provochi un’importante reazione da parte dei Paesi occidentali. La missione francese, chiamata Operation Serval, risponde proprio a questa logica e anche alla paura che un territorio vastissimo, come il Nord del Mali, diventi un territorio occupato da indipendentisti islamici legato allo jihadismo internazionale che possano mettere a repentaglio la sicurezza dell’Europa.

Il presidente francese Hollande è disposto a rischiare di perdere il sostegno del proprio elettorato pur di evitare di perdere l’appoggio di una ex colonia così rilevante nello scacchiere della geopolitica africana. Ciò avviene anche perché un impegno militare può sempre rinforzare i rapporti con l’elite politica di un Paese e creare anche nuove importanti opportunità economiche. La mossa di Hollande è stata a lungo ragionata e sottoposta al vaglio degli altri Stati europei che non solo hanno dato il loro bene placito all’operazione ma hanno anche fornito supporto logistico, seppur scegliendo la tattica “no boots on the Ground”. Molti esperti hanno espresso i loro timori che il Mali potesse diventare un nuovo Afghanistan e che dunque potesse essere difficile individuare una exit strategy efficace e capace di evitare che il Paese ricadesse nelle mani dei gruppi islamici. Il rischio è forte poiché, data la porosità dei confini maliani, gli jihadisti potrebbero abbandonare momentaneamente l’area cercando rifugio nel deserto o nei Paesi confinanti per poi rientrare in quei territori una volta che la missione francese sia terminata. Dunque la superiorità militare francese potrebbe non bastare ad infierire un colpo mortale per gli jihadisti e questo rischio si concretizzerebbe soprattutto se non fossero previsti, da parte del governo maliano, delle politiche post-conflitto atte a reintegrare nella società civile gli ex combattenti, come d’altronde è già avvenuto in passato. Il rischio che l’intervento in Mali possa provocare delle ripercussioni anche in Paesi terzi è altissimo: basti pensare a quanto avvenuto in Libia e il collegamento ormai risaputo tra la caduta del leader libico Gheddafi ed il rafforzamento dei movimenti indipendentisti e jihadisti in Mali. Un altro esempio di quanto questo conflitto possa generare dei cambiamenti in altri territori può essere ritrovato nella caduta del Presidente centrafricano Bozizè, il quale una volta che si è trovato in difficoltà ha chiesto aiuto a due importanti alleati come la Francia e il Ciad, entrambi impegnati in Mali e per questo impossibilitati a fornire sostegno al leader centrafricano. Dunque anche il colpo di Stato in Repubblica Centrafricana e l’esilio di Bozizè in Cameron possono essere ricollegati all’impegno militare francese e ciadiano in Mali.

Conclusioni

Quel periodo che veniva indicato come democratico e pacifico effettivamente non lo è stato, se non in parte. Prima di tutto abbiamo visto che la partecipazione al voto è sempre stata molto ridotta e anche nelle elezioni del 2007 l’affluenza non ha raggiunto neanche la metà degli aventi diritto. Questo, come già detto, non determinava una legittimazione politica capace di fortificare le istituzioni governative e quindi mettere al riparo da critiche l’operato del Presidente. L’accusa di brogli, o più in generale di alterazione del risultato elettorale, era sempre presente e volta ad indebolire chi veniva eletto e ciò era possibile anche perché, soprattutto negli anni ’90, gli osservatori esterni erano troppo pochi per poter coprire una buona percentuale di seggi. Queste problematiche, legate alla frammentazione politica, non hanno permesso una “crescita” della democrazia e i problemi che si incontravano all’inizio di questo lungo periodo sono rimasti gli stessi che poi hanno portato al colpo di Stato del 2012.

La questione del Nord, che si riteneva ormai superata, effettivamente è rimasta sempre presente e in alcuni periodi era latente, ma i periodici attacchi ed il collegamento tra banditismo e movimenti indipendentisti non ha fatto altro che sbilanciare l’equilibrio a danno delle forze regolari. Il periodo che è intercorso tra gli inizi degli anni ’90 e la primavera del 2012 non è stato un periodo di pace ma bensì sarebbe più corretto parlare di un conflitto a bassa intensità. L’esercito maliano aveva a disposizione mezzi antiquati e risorse inferiori rispetto a quelle di cui disponevano i movimenti del Nord. Nel 2012 la guerra civile in Libia ha messo a disposizione nuove armi e uomini ben addestrati. I traffici illeciti legati al contrabbando di droga, di armi e di uomini determinano l’afflusso di grandi somme di denaro; i movimenti legati allo jihadismo internazionale, come Aqmi, Mujao così come Ansar Edine, hanno intuito che il Nord del Mali dava loro a disposizione non solo una vasta area sottratta al controllo delle forze di sicurezza statali ma anche la possibilità di mettere le mani su grandi somme di denaro, utili ai loro obiettivi.

La lettura che è stata fatta da parte del mondo accademico tendeva a descrivere l’ultimo colpo di Stato come un fulmine a ciel sereno, un fatto che cozzava con il lungo periodo di pace che stava vivendo il Paese. Ripercorrendo con attenzione sia le più importanti tappe politiche sia la situazione nel Nord possiamo dire che era già chiaro che i problemi non erano in alcun modo risolti, bensì covavano sotto la cenere e nel momento in cui hanno avuto modo di riemergere hanno provocato gravi ripercussioni. L’incapacità di affrontare con forza e, soprattutto, dare seguito agli accordi di Tamanrasset cercando di sviluppare il dialogo con i capi tuareg del Nord e con la popolazione sono risultati fatali per la democrazia maliana. Proprio la popolazione ha avuto un ruolo importante nelle frequenti rivolte nelle aree settentrionali perché durante gli anni ’90 e in parte anche in seguito questa ha sempre sostenuto l’impegno volto ad ottenere l’autonomia. Sostegno che è mancato nella rivolta del 2012 sia per i modi con cui questa è stata portata avanti sia per la conseguente imposizione della sharia da parte dei gruppi jihadisti. L’imposizione di un Islam radicale fino ad allora sconosciuto alla popolazione generava subito un forte malcontento e un’avversione rispetto ai capi di questi movimenti. La popolazione non ha più avuto un ruolo attivo bensì ha dovuto subire l’oppressione degli integralisti, argomentazione ritenuta importante non solo dalle agenzie che si occupano di tutela dei diritti umani ma anche da parte del governo francese in merito all’intervento militare.


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