Il mantenuto – seconda parte

Da Olineg

qui la prima parte

Ines la notò in un centro-commerciale, a dire il vero quello che notò fu la collana d’oro, tanto robusta da poter legare, in tutta sicurezza, un motorino al palo, e i numerosi bracciali e anelli, un solo dito risultava spoglio, privo di pietre e metalli preziosi, ma non di civetteria fuori tempo massimo: l’anulare sinistro. Domenico la pedinò, la seguì nell’erboristeria, nella profumeria, dall’estetista, pur di starle alle calcagna comprò un vaso alto come un bambino di dieci anni, un completino intimo di pizzo nero, un trolley rosa con la faccia di un gatto. L’occasione si presentò quando lei, carica come un ambulante a Pechino, perse, o forse lasciò cadere di proposito, una busta, Domenico accorse evitandole il fatale piegamento, e recuperata la merce si produsse in un baciamano provato centinaia di volte davanti allo specchio, e causando, contemporaneamente, la frana di tutti gli altri pacchi. Ines gli raccontò di non essersi mai sposata, ma di aver fatto girare la testa a diversi uomini in passato, compreso un famoso attore degli anni sessanta che Domenico non aveva mai sentito nominare. Era ricca di famiglia Ines, e sola, circondata da centinaia di peluche, ammucchiati sulle mensole con un macabro effetto campo di concentramento. Quella notte dormirono insieme, ma non fecero niente, rimasero abbracciati, addormentati nel mezzo di un racconto di Ines, un racconto tutto paillette e piume di struzzo. La mattina Domenico fu svegliato da un urlo, e poi un altro, e un altro ancora, quasi non riusciva ad aprire gli occhi tanto quelle grida gli provocavano fitte alla testa. Ines gli lanciava addosso spazzole e boccette di profumo, gli strillava di uscire da casa sua. Forse non ricordava nulla, o forse la mattina aveva altri gusti. Domenico capì che era una battaglia persa, raccolse gli abiti con una mano, e con l’altra si copriva il volto dagli oggetti volanti, ma si preoccupò anche di rastrellare una mancia per il disturbo, nello specifico la collana d’oro della sua mancata amante, che analizzata dal compro-e-vendo-oro sotto casa, risultò volgare bigiotteria, falso come i suoi animali di peluche e i suoi ricordi stile Dolce Vita.

Per qualche tempo Domenico bazzicò le associazioni benefiche, come concetto gli sembrava più onesto, in fin dei conti lui era alla ricerca di qualcuna che gli facesse beneficenza, ma scoprì che contrariamene a quanto pensava, quello della beneficenza era sport per giovani idealisti e non per ricche tardone, come facevano intendere certi film. Poi un giorno ebbe l’illuminazione guardando il telegiornale, vide una vecchia matrona intervistata, la scritta in sovraimpressione riportava il suo lungo nome condito da titolo nobiliare, l’ottantenne tesseva le lodi morali e politiche di uno dei candidati alla carica di segretario di Fiore Tricolore, il nuovo partito del rinnovato centro che proponeva l’inedita commistione fra vecchi fascisti e decrepiti democristiani. Ci provò e ci riuscì: si imbucò nel congresso di Fiore Tricolore, come segretario e delegato del fantomatico circolo di Castelluzzu in provincia di Cosenza. Quel posto era il paradiso dei gerontofili: seppur il partito non contasse nemmeno una donna fra i propri eletti in Parlamento, la convention pullulava di vecchie signore. Sobriamente eleganti come carri di Viareggio e simpatiche come malattie veneree. E tutte andavano in giro con il mento alto, la testa all’insù, come se avessero il collo incriccato, e a guardarle veniva da scommettere su quando sarebbero inciampate, cadute a terra rovinosamente, con tanto di bestemmione da borgata antica. Domenico, dopo aver dovuto specificare per l’ennesima volta che non era il cameriere, a seguito dei suoi tentativi di presentazione, se ne fece una ragione e afferrò un vassoio dal tavolo del buffet. Lo sguardo, o meglio il non-sguardo, che quel tipo di gente riservava alla “servitù” lo conosceva bene, per sei anni aveva lavorato nella ristorazione di lusso, per sei anni aveva lottato col senso di frustrazione. Suo nonno paterno era stato comunista, quello materno fascista; la fame e il freddo che avevano patito erano stati gli stessi, ma pensavano, agivano e parlavano in maniera completamente diversa. Una sola parola avevano in comune: “rivoluzione”. E gli davano lo stesso ingenuo significato: nessuno avrebbe dovuto più togliersi il cappello davanti a nessun altro. Ci sarebbero rimasti secchi i due vecchi se lo avessero visto in quel momento, a servire anche quando non veniva pagato, ma Domenico stava facendo altro, qualcosa che quei due pastori rincoglioniti non avrebbero mai potuto capire, stava combattendo una sua personale, viscerale e ineluttabile rivoluzione. «Lurida porca…» Soffiò Domenico nell’orecchio della contessa Alberici dei Folasca-Strozzi. Pur non toccato, il grosso orecchino appeso al lobo ottuagenario oscillò di scandalo.

Continua



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :