Il Mar Cinese Meridionale: il mare nostrum di Pechino

Creato il 07 gennaio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Un caso geopolitico a matrice geostrategica. Mahan e Sea Power ai giorni nostri. Geograficamente cinese, politicamente conteso tra armi e diritto. Pechino lo rivendica come interesse vitale, lo inquadra come sfera d’influenza negli equilibri regionali e lo pone sulla bilancia di potenza nel confronto con gli Stati Uniti.
Il rischio della “Gunboat Diplomacy”.

 
Il Mar Cinese Meridionale: un indice di misurazione della bilancia di potenza nel quadrante geostrategico del Pacifico e un piano di intersezione della geopolitica classica con quella in fieri della nostra epoca.
Nel linguaggio della dottrina geopolitica esso si situa in uno dei “tre mediterranei” che Friedrich Ratzel per primo inserì in una teoria delle sfere marittime di influenza in quanto base e proiezione dello Sea Power. Il geografo tedesco individuava il nesso del carattere mediterraneo di un mare nel suo essere via di congiunzione e di comunicazione tra due oceani. Ebbene, filtrato alla luce di un paradigma strategico-identitario, il mare nostrum su scala globale è una triade:

- il Mediterraneo per eccellenza, quello euro-arabo/africano che, prima lungo il corso del Nilo e poi attraverso il Canale di Suez, costituisce il collegamento tra l’Oceano Atlantico e quello Indiano;
- il mediterraneo centroamericano che, con la realizzazione del Canale di Panama ideato a fine ‘800 e inaugurato nel 1914, collega l’Atlantico al Pacifico;
- il mediterraneo asiatico/australe che, mediante lo stretto di Malacca, collega il Pacifico all’Indiano.

L’ammiraglio Mahan introiettò questa triplice mediterranea a sostegno della visione di potenza americana, individuando nel Mar dei Caraibi quel territorio d’acqua che avrebbe permesso agli Stati Uniti, allora con un protagonismo mondiale ancora in gestazione, di disporre di un fronte bi-oceanico interconnesso in grado di produrre quella power projection che avrebbe trovato una propria espressione nell’evolversi della formulazione geopolitica che va dal Destino Manifesto e dalla Dottrina Monroe al “Corollario Roosevelt”.

Oggi, una Cina più che sensibile all’influenza mahaniana, alle aspirazioni Sea Power e ad una propria Dottrina Monroe, punta con decisione al proprio Mar dei Caraibi, a quello che ormai considera a pieno titolo un interesse strategico, per l’appunto il vasto mare a Sud.

Già da tempo teatro di rivendicazioni da parte dei Paesi rivieraschi e di influenze politico-militari di varie potenze, il Mar Cinese Meridionale copre un’area di 800 mila kmq per il 90% circondata da terra; dato che rileva quanto nelle mire cinesi sussista l’idea di delinearlo de facto come un proprio grande lago. Circondato da Filippine, Malaysia, Brunei, Indonesia, Singapore, Thailandia, Cambogia, Vietnam oltre che da Cina e Taiwan, dispone di due stretti di comunicazione rispetto all’Oceano Indiano, quello di Taiwan a Nord e quello di Malacca a Sud.

E’ costellato da una serie di isole, isolotti e arcipelaghi oggetto di presenze militari e di innumerevoli contenziosi politico-giuridici che celano l’evidente interesse per una zona importante in termini di trasporto di merci, rilevante presenza di idrocarburi (più di un centinaio di bilioni di riserve tra accertate e stimate), risorse ittiche, fattori di sicurezza. I cinesi esercitano un peso notevole nelle rivendicazioni territoriali, ma altri attori non demordono, tanto più che la legislazione internazionale in materia appare tutt’altro che risolutiva a fronte di una situazione più che ingarbugliata. E’ un mare cinese nel nome, meno in sovranità, almeno alla luce dell’attuale status quo giuridico.

Nel cuore di interessi contrapposti o intrecciati, significativo è il ruolo delle isole Spratly, una zona di 350 mila kmq ove transita un quarto del traffico mondiale di merci verso Giappone, Corea, Cina, Taiwan, Australia, Nuova Zelanda e Medio Oriente e ove giacciono ambite riserve di gas e petrolio. Non solo, esse rivestono una valenza strategica se considerate nella prospettiva di renderle base avanzata per il controllo dei choke points della Malacca, della Sonda e di Lombok.

Le Spratly sono una ferma ambizione cinese a fronte delle rivendicazioni del Vietnam, ma in particolar modo di Taiwan che, se ne ottenesse il riconoscimento, potrebbe a quel punto avanzare una dichiarazione di indipendenza e reclamare lo status di arcipelago. Un’eventualità, questa, che avrebbe la portata di una doppia sconfitta per Pechino: per la negazione delle “due Cine” (con tutto il significato storico della perdita di Taiwan) e per il controllo proprio sul Mar meridionale.

Di valore strategico è anche l’isola di Hainan, sede di una base navale sotterranea in grado di ospitare sottomarini nucleari, una portaerei ed una flotta, e a sua volta punto di forza nella disputa sugli arcipelaghi non sole delle Spratly ma anche delle Paracel.

I cinesi marcano l’influenza marittima sul mare del Sud (e non solo) come un vero e proprio core interest degno della più alta sorveglianza strategica al pari di Taiwan, Tibet e Xinjiang.
Ciò comporta almeno tre implicazioni generali che si sorreggono vicendevolmente:

- la sovranità marittima è l’altra faccia di quella terrestre, dunque vi è un principio di indivisibilità territoriale da consolidare;
- il bisogno di raggiungere un potenziale militare che incida sulle dispute in atto e regoli le eventuali conseguenze;
- l’intento di costruire un nuovo ordine regionale sino-centrico, bilanciando consensus e coercizione diplomatica.

La Cina vuole assurgere al doppio ruolo di potenza continentale e marittima.

Quella del mare nostrum è per Pechino una contesa regionale con le sue specificità, ma non scindibile dal più vasto quadro delle influenze dei vicini e delle potenze esterne, naturalmente su tutte gli Stati Uniti. Vicini e potenze i cui tentativi di influenza cerca di respingere. Una delle questioni sul tavolo è come Pechino si muoverà nell’insidioso rimbalzo di azioni e reazioni. E’ importante evidenziare che proprio nella diagnosi americana non sfugge, anzi risalta la similarità degli intenti geostrategici sino-americani nel solco del parallelismo storico e geopolitico che possiamo desumere da due potenze – ieri gli USA, oggi la Cina – che cercano di definire uno Sea Power, in particolare a partire dai rispettivi mari “di competenza” e in relazione ai Paesi circostanti e alle potenze esterne.

Sostanzialmente, fermo restando le dovute differenze storiche e culturali, il Mar Meridionale, il Mar Orientale ed il Mar Giallo richiamano per i cinesi ciò che rappresentavano il Mar dei Caraibi ed il Golfo del Messico per gli americani dal finire dell’800 agli inizi del ‘900, cioè un territorio d’acqua da incubare nelle proprie mire militari e commerciali e considerare come snodi inter-oceanici, così come nella visione di Mahan.

Formalmente gli Stati Uniti non reclamavano nessun territorio né vietavano il transito di navi da guerra europee, puntando però ad impedire il costituirsi di basi navali nemiche lungo le rotte verso l’istmo centro-americano, sede appunto del futuro canale. Theodore Roosevelt, molto sensibile all’elaborazione di Mahan, con il suo “Corollario” del 1904 sanciva il diritto americano ad intervenire negli affari degli Stati caraibici, in specie quelli più deboli e insolventi nei confronti delle banche europee. In tal modo, suggellando come era nelle sue intenzioni la Dottrina Monroe di non ingerenza esterna, si contrapponeva alla pratica in uso delle potenze europee di inviare in quei casi navi da guerra a prender possesso delle dogane come risarcimento, esercitando poi un controllo di fatto dei territori. Da un punto di vista geostrategico, quindi, la priorità era salvaguardare gli accessi all’istmo di Panama, praticamente irrinunciabile ai fini della libera navigazione commerciale e militare tra le coste Est-Ovest e tra il Nord America e l’Asia.

Ai mari di mezzo americani, oggi i cinesi rispondono con il Mar meridionale volto allo stretto di Malacca verso l’Oceano Indiano. In termini geospaziali, infatti, la prossimità della Penisola Malese all’arcipelago di Sumatra concorre a formare un’istmo che a buon ragione richiama il corrispettivo contemplato nella visione mahaniana. Similare è anche il caso di due “mari chiusi”, il Baltico e il Nero, per la potenza continentale russo-sovietica che dislocò la propria forza navale per renderle “aree riservate”.

Ma il nesso marittimo sino-americano incontra un squilibrio nel momento in cui si considera che allora gli Stati Uniti potevano godere del vantaggio di una collocazione geografica al riparo da altre potenze. La stessa Gran Bretagna era ormai costretta a ripiegare le proprie forze navali dall’Atlantico verso postazioni continentali per affrontare le contingenze legate alla consolidata potenza terrestre germanica, ora con crescenti aspirazioni sui mari.

La Cina, al contrario, manca di una simile situazione favorevole, cosicchè ci sono un vantaggio in meno e uno svantaggio in più a pesare sulla bilancia di potenza tra Pechino e Washington, laddove proprio quest’ultima, col suo dispositivo di alleanze politico-economiche e di forza militare, continua a perseguire una strategia di influenza e controllo nella regione e lungo il rimland indo-pacifico.

Se Pechino dovesse optare per una assertività sovranista, nel senso di una massimizzazione del suo core interest-mare nostrum, si porrebbe in modo drastico la questione di un equilibrio di poteri notevolmente viziato dal rafforzamento navale. Come Roosevelt e Mahan seppero intendere e attuare l’idea di una flotta capace di sorvegliare le rotte strategiche e i punti critici nonchè infliggere colpi nelle acque del Sud, altrettanto i cinesi immaginano e perseguono nei piani della loro Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare (MELP) al fine di proteggere le SLOCs (Sea Lines of Communication). Parimenti, essi si troverebbero a legare massimizzazione politico-strategica e radicalizzazione militare in un scenario che li vedrebbe alle prese sia con un raggio d’azione molto ampio per la difesa degli interesse vitali in tutti e tre i mari Meridionale, Orientale e Giallo – ai quali si somma il noto “dilemma di Malacca” – sia con un’infuocata corsa al riarmo che del resto è già partita.

Per quanto in effetti possa anche solo maggiormente indirizzarsi verso una difesa delle SLOCs e in misura minore verso una proiezione sulle acque meridionali, l’opzione marittima e navalista di Pechino finisce per incrociarsi con quella omologa di Washington, da tempo consolidata e rilanciata e ormai ufficialmente inserita nella nuova visione strategica che abbraccia il Pacifico fino ad elevarlo, sembrerebbe – nel suo insieme di isole, arcipelaghi, mari e Paesi rivieraschi -, a nuovo pivot geopolitico.

E, in quello che è un corpo d’acqua di crescente interesse per protagonisti e osservatori, il dispiegamento militare ne indica la rilevanza e suggerisce l’ipotesi di una novella diplomazia del cannone nel Mar Cinese Meridionale:

- sottomarini tattici: 68 cinesi, 16 giapponesi, 23 sudcoreani, 4 taiwanesi, 2 indonesiani, 3 americani (6 ordinati dai vietnamiti);
- cacciatorpedinieri: 13 cinesi, 30 giapponesi, 6 sudcoreani, 4 taiwanesi, 7 americani;
- fregate: 65 cinesi, 16 giapponesi, 12 sudcoreane, 22 taiwanesi, 11 indonesiane, 1 filippina;
- incrociatori: 2 giapponesi, 2 sudcoreani, 2 americani;
- portaerei: 1 giapponese, 1 americana (è in cantiere una cinese).
(fonte NYT, nov. 2011)

Inquadrati nella logica di una competizione ad alta intensità, sono numeri destinati a modificarsi, anche in considerazione del tipo di missili di cui poter disporre, tipo capace eventualmente di mutare percezione del pericolo e geografia degli avamposti, come potrebbe essere nel caso dei missili balistici ASBM.

Per la MELP, per la US 7th Fleet e per gli altri attori, la sfida sui mari richiede lo sviluppo di hardware, acume tattico e arte della navigazione. Ma su tutto, c’è la variabile politica che fa di questo specchio d’acqua una disputa nella più ampia contesa regionale che lungo le rotte oceaniche conduce dall’Indo-pacifico al Medio Oriente e all’Africa. Sul piano più in alto ancora c’è la bilancia di potenza su scala globale.

 
* Alfredo Musto è ricercatore presso l’IsAG


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