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Il Marabino. Vita e morte di Mario Mazzoni, "resistente disarmato" anzolese

Creato il 11 novembre 2013 da Patriziacaffiero

Mi chiamo Mario Mazzoni, ma tutti mi chiamavano il Marabino.

Abitavo in Borgata Immodena, lungo la strada che va da Anzola alle Budrie.

Quello era un paradiso, ci volevamo tutti bene.
Se uno aveva bisogno di qualcosa, non lo lasciavamo nei guai.
Certe volte noi comunisti con gli anarchici ci azzuffavamo, ma alla fine andavamo d'accordo meglio di prima, perché si credeva tutti nella libertà.

Quando nel 1922 i fascisti ammazzarono a tradimento Aristide Toselli, l'anarchico, il più allegro di tutti i borgatari, quello che componeva le più belle zirudelle della zona, hanno spezzato il cuore anche a noi; non riuscivamo a farcene una ragione. Quella sera Aristide era uscito per andare al torneo di bocce giù all’osteria, mica se lo aspettava di tornare a casa sua dentro quattro assi di legno.

Questo per dirvi quanto era importante per noi l'osteria.
Là ci giocavamo la vita e la morte; là parlavamo di politica, anche se era proibito; il suo cortile era l'asilo infantile per i bambini di Immodena. Il sabato e la domenica si ballava, venivano da tutti i paesi vicini con le biciclette, e anche i braccianti che non avevano niente da spendere, un bicchiere di vino potevano sempre permetterselo.

Dopo la grande guerra Immodena ha cominciato a morire, e adesso il suo spirito non esiste più, c'è rimasto solo l'involucro, come un malato di mente che è vivo ma ha perso la ragione.

Sono rimaste quattro case e nessun posto per trovarsi e stare insieme, l'osteria è stata chiusa.
Sul cancello di un casale disabitato hanno appeso da anni un cartello giallo con la scritta Vendesi, ma chi ha voglia di comprare una casa in una borgata morta?

Io sin da piccolo sapevo che non potevo stare con la schiena piegata sui campi, fare il bracciante come mio padre.
Io volevo fare il muratore, impastare la terra nell'acqua e costruire; scavare le fondamenta, creare qualcosa di nuovo e di duraturo.

Il contadino se ne sta spesso da solo dentro la terra, mentre io desideravo lavorare in squadra per parlare al momento giusto e organizzare i compagni, prenderli come pesci in una rete; in un disegno più grande.

Mi sono iscritto al Partito Comunista a diciassette anni, un anno prima che uccidessero il nostro Aristide e tre anni prima che gli squadristi bastonassero a morte Giovanni Goldoni, il nostro ex-sindaco socialista, che aveva fatto tanto per i lavoratori.

Io, il Marabino, non mi ricordo più quante volte sono stato malmenato dai fascisti al ritorno dal lavoro e lasciato mezzo morto sulla soglia di casa, o vicino la porta della cascina.
Ogni volta passavo un lungo periodo a letto, curato dalla mamma e dalle mie sorelle; ma appena tornavo in piedi ricominciavo a riorganizzare i compagni.

Nel 1927 mi hanno arrestato, e rinchiuso nel carcere di Venezia; i poliziotti mi picchiavano con i calci dei fucili sulle piante dei piedi, poi mi riportavano in cella. Mia madre mi venne a trovare e, badate bene: io ho avuto la mamma più dolce e buona del mondo; però quando si mise a piangere perché non riuscivo a stare in piedi io l'ho sgridata.

Diavolo, anche lei doveva indurirsi, farsi coraggio; c'era bisogno del lavoro di tutti per resistere alla bestia nera.

A Venezia, una sera, i poliziotti hanno portato in cella con noialtri Arturo, un dirigente del PCI, che si affezionò a me come un padre e m'insegnò quello che non ero riuscito ancora a sapere sull'organizzazione clandestina.

Infatti, quando uscii dal carcere, misi sotto i miei ragazzi più di prima, e l'anno dopo mi arrestarono per riorganizzazione del partito comunista e associazione sovversiva.
Non mi mandarono al confino perché avevo preso la tubercolosi, tossivo in continuazione e sputavo sangue; ero diventato molto magro.

Io mi ricordo sempre di Fernanda, la mia ragazza; le avevo detto che non potevo sposarla perché ero molto legato alla lotta.
Ma se ci penso adesso, se non mi ammazzavano i fascisti, mi avrebbe fatto fuori la tisi, alla fine; non sarei stato mai un buon partito per lei.

Non me ne sarei voluto andare così presto; ma se ripenso alla mattina del 7 novembre 1930, l'anniversario della Rivoluzione russa, quando la gente ha trovato prima di entrare in fabbrica, sui banchi del mercato, sulle panchine delle stazioni , i volantini con le scritte sulla libertà che avevamo sparso la notte prima; se immagino lo sguardo di tutti quelli che avevano perso fiducia e speranza nel cammino della rivoluzione quando hanno scoperto la falce e martello stampata sui muri delle case e la grande bandiera rossa sventolare nel punto più alto della via Emilia, se ci ripenso, io non sono triste perché m' hanno ucciso, giuro che rifarei tutto subito se mi mandassero in terra un’altra volta.

Mi hanno arrestato la mattina del 21 novembre 1930; il pomeriggio hanno fermato i miei ragazzi, i miei compagni, più giovani di me: Francesco Testori, Dante Sarti, Bruno Trebbi, Cleto Masi.

A me mi hanno ammazzato quel giorno stesso, loro li hanno scarcerati, e questo è stato un bene, perché l'han fatta loro la rivoluzione.

Tredici anni dopo son diventati tutti partigiani, non hanno tradito mai il comunismo.

Pensavo alla bandiera rossa appesa sulla via Emilia mentre mi crocifiggevano al carcere di San Giovanni in Monte, ma ve lo dico, neppure io potevo crederci quando uno degli sgherri di Pastore andò a prendere il martello da un'altra stanza e con i chiodi in mano mi disse che mi avrebbe fatto diventare Cristo, altro che Marx, così l'avrei rispettata di più la religione.

Nella bara stavo con le braccia lungo il corpo, mi avevano messo le mani rivolte verso i fianchi perché così non se ne sarebbero accorti dei buchi nelle mani e nei piedi, ma mia madre quando è venuta alla Certosa con l'unica camicia buona che possedevo per vestirmi, se n'è accorta e si è messa a gridare, anche se i fasci la minacciavano se non smetteva: continuava a urlare che mi avevano ucciso come Gesù, perché come Gesù io volevo l'uguaglianza.

Questa era mia madre. Il giorno dopo venne a chiedere il mio corpo per seppellirlo, ma la polizia mi aveva già tumulato in fretta nella fossa comune per nascondere il tradimento.

Io, il Marabino, sin da piccolo sapevo che non potevo stare con la schiena piegata sui campi, non volevo fare il bracciante come mio padre.
Io volevo lavorare in squadra, parlando al momento giusto e organizzando i miei amici per prenderli come pesci in una rete; in un disegno più grande.


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