Il maschile prevarica e il femminile diventa una stereotipo: perché sono pro quote rosa

Creato il 08 marzo 2014 da Olga

In linea di principio sarei contraria alle quote rosa, perché non dovrebbe sentirsene il bisogno. Sono contraria a qualsiasi imposizione di sorta. Se uomini e donne sono pari, devono farsi valere allo stesso livello. Per me dovrebbe valere solo il merito (nel privato e nel pubblico, maschio e femmina che sia). E’ meglio avere meno regole rispetto a più regole che non esauriranno mai la casistica globale. Meno paletti ci sono e meglio è. Questo è il principio che regola i miei ragionamenti, di norma.

Quando parlo di linea di principio, mi riferisco a quello che avrei pensato a 18 anni. Con una visione sicuramente più estrema (ma allo stesso tempo più malleabile) di quella che ho ora. Al tempo i miei punti di vista erano anche molto più maschili – inconsapevolmente e convinta del contrario: sono cresciuta intellettualmente in mezzo ai maschi. Siamo tutte cresciute intellettualmente in mezzo ai maschi. E badate bene: non sto facendo una discriminazione al contrario: lo si vede nella letteratura, nelle arti. Abbiamo studiato per tanti anni il punto di vista dei vari Sartre, ma solo da pochi anni abbiamo imparato i punti di vista delle varie Beauvoir (anche la letteratura erotica ne è una prova, ma questo magari lo posso discutere in un altro post). Nel suo intervento a La zanzara del 7 marzo, Oliviero Toscani sostiene che le quote rosa siano inutili perché le donne italiane non sono interessate alla politica. Può anche darsi che sia cos, ed è un gravissimo problema culturale.

Facciamo il classico esempio delle bambine. Ipotizziamo Giulia, una bambina di media intelligenza e di media bellezza nata dieci anni fa: ora vede al tg solo uomini in cravatta e camicia parlare di politica. Sente il cinque stelle dire che le donne del PD l’hanno data di qui e di là. Un giorno scopre che cosa sono i pompini, ma non perché legge Noi ragazzi dello zoo di Berlino, ma perché tutti parlano di incarichi scambiati con blowjob (e tra parentesi: non sono solo le donne a farli, gli uomini sono bravissimi, questo andrebbe puntualizzato di tanto in tanto, se vogliamo tenere questo livello di argomentazione).

Giulia vede opinioniste bellissime alla tv, svestite, e uomini cessi che gridano per avere ragione. Giulia assorbe questi modelli e forma il suo pensiero. E da un giorno all’altro si ritrova a pensare che una donna debba essere bella, o debba comportarsi come un uomo  per fare valere le proprie ragioni. Il maschile prevarica e il femminile perde di interezza, diventa una stereotipo. Si riduce a categorie. Personificazioni. Lo sappiamo come funziona, non sto certo dicendo novità.

Sarei rimasta contro le quota rosa, se non avessi vissuto in Francia e nel Regno Unito, se non mi fossi seduta a cento tavoli di soli uomini, e se non ne avessi parlato con mia madre. Non è che all’estero non avvengono discriminazioni, quelle ci sono ovunque. Ci sono sempre più uomini che donne, in politica.

Ma non ci sono questi toni. Non ci sono i pompini, non c’è il maschile volgare svenduto in tutte le salse. Il cazzo non è ovunque, non regola tutto. Il cazzo è dove deve stare: tra le lenzuola, in bagno, sul divano, su di un telefonino. Il politically correct è sostanziale, ha un’utilità sociale, non è solo non dire parolacce alla tv dalle 21.00 alle 23.00.

Questo è il vero problema. Bisogna cambiare la cultura, le parole, i toni. Quando vivevo a Londra, non potevo fare delle notazioni sulla bellezza di un prof, di un politico, un giornalista. La mia amica tedesca mi guardava con imbarazzo (e il mio amico inglese ecc). Ho poi imparato che sono cose che si pensano, ma non è necessario dire: non è un fotomodello. Al tempo mi sembrava eccessivo, li ritenevo ipocriti, pensavo: che palle. Ma non è l’approccio sbagliato: bisogna distinguere bene i settori.

Il cambiamento culturale, un’inversione di tendenza, è quello che dovrebbe avvenire in primis. Lo leggevo oggi un un articolo di Vittorio Pelligra su La voce: “L’economia alle prese con le questioni di genere”: ne cito una parte (decontestualizzato, intero è qui), si parla di gender gap sul lavoro: le donne hanno una minore propensione alla competizione e sono meno sensibili agli incentivi monetari.

Come invertire questa tendenza? Favorire lo sviluppo di un atteggiamento più competitivo anche tra le donne, già dai primissimi anni della socializzazione, otterrebbe l’effetto di far aumentare la loro presenza nei posti che contano, quelli più ambiti e meglio remunerati, forse. Ma in questo modo si rischierebbe di perdere altri aspetti del “genio femminile” che, se adeguatamente valorizzati, possono rappresentare un valore per ogni organizzazione: affidabilità, cooperatività, pianificazione. Forse allora dovremmo iniziare a ripensare le forme di lavoro e le procedure di selezione e operare per diffondere una corporate culture che sia maggiormente accogliente e inclusiva e capace di valorizzare le diversità, a partire da quelle di genere.

Io vorrei che ovunque si potesse valorizzare il genio femminile nella sua interezza. Con le diversità che ci sono. Completezza.

Infine

Giglioli sul suo blog parla di maschi che cooptano i maschi. Io vorrei che le quote rosa coadiuvassero qualcosa di più ampio: il cambiamento di una direzione, nella comunicazione.  Una rivoluzione culturale. Vorrei che in Italia nessuno più dicesse che Bindi è un cesso, o che Kyenge è un orango tango o che Boschi è figa. Vorrei che piuttosto si dicesse con toni educati che non si sa bene perché Bindi sia presidente della commissione antimafia, che Kyenge non ha fatto niente, e che il ministero di Boschi sembra inutile (bella o brutta che sia). Ma ho l’impressione che questo non possa avvenire se alle donne non viene facilitato l’accesso a un mondo molto maschile, per poterlo rinnovare. Per poterlo sconvolgere, rivoluzionare. E purtroppo, pur riconoscendone i difetti, temo che le quote rosa siano un buon inizio. In attesa di una società più meritocratica.


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