Il mattino

Da Marcofre

Il settimo racconto breve: Il mattino.

Buona lettura.


Quando apre gli occhi, senza bisogno della sveglia, trova due cose ad attenderlo.

La prima è il buio. Non quello della camera da letto, c’è un altro buio che lo aspetta; ha la faccia amichevole, un sorriso come se volesse rassicurarlo, mentre in realtà lo frega. Non gliene importa un accidente spiegare come riesca a vederne i lineamenti, e il sorriso; prima di tutto perché a nessuno interessa sapere qualcosa di lui, non è un tipo importante, mai stato in televisione, per dire. Poi, perché è così, lo sa; anche se è un poveraccio con un diploma di terza media. Ha una testa, che forse si frigge, si sta sprecando a lavorare in quel modo; e quella testa pensa, pensa, pensa, e alla fine ecco: il buio, quello vero, non lo scacci premendo un interruttore.

Posa la mano sul fianco della moglie, che dormirà ancora per una ventina di minuti; la fa scorrere su e giù, delicatamente. Non vuole svegliarla.

La seconda cosa che lo accoglie è lo schifo; ma è qualcosa di leggero, un odore che stagna dietro i gesti, i pensieri quotidiani. La casa è pulita, ordinata, non ci sono bambini, verranno, sono giovani, trent’anni, e un mucchio di lustri ad attenderli, là davanti. Magari per nulla rassicuranti, ma bisogna andare avanti, mica si può star lì a far nulla, o a lamentarsi. Lo schifo che percepisce è un po’ come il buio, non si può spiegare se non si vive in una certa maniera. E’ il disprezzo di sé perché non si riesce a combinare qualcosa di meglio; confina con l’orrore.

Fabio lo mastica da anni; dal primo giorno di lavoro, quando ha varcato la soglia del magazzino. Dentro, c’è una grande cella frigorifera, e lì ci passa otto ore al giorno, a tre, quattro gradi centigradi. Ha smesso di prendere due settimane di ferie consecutive, o precipita sotto gli 800 Euro; e tra macchina da pagare, mutuo, più le spese, e i simpatici imprevisti che in una vita ai margini non possono mancare, non resta più niente.

In cucina, sbarbato, vestito, alza la tapparella della cucina, osserva il cielo sereno, è luglio, sarebbe bello, anzi lo è: peccato che lui non possa allungare la mano, spingere la porta, ed entrare, in quella bellezza. E’ una faccenda che riguarda altri: alcuni, pochi e selezionati con cura. Vanno in ferie in montagna, spediscono i figli a equitazione, o a scuola di tennis, frequentano il teatro e girano in macchine il cui valore è quadruplo rispetto alla sua utilitaria da oltre 150.000 chilometri. La vita, quella vera, piena di opportunità e impegno, di bambini da salvare in Africa, di foreste da soccorrere, e le mostre di Van Gogh, non è un affar suo. Appartiene tutto al livello superiore.

E’ arrivata la rabbia. E’ un’altra sua compagna più o meno fedele, dopo il buio e lo schifo viene lei. Vorrebbe che la vita, fosse qualcosa su cui avere un qualche potere.

Un tempo, credeva che vivere fosse una faccenda sua, personale. Poi, questa idea era scivolata sotto il peso di una realtà fatta di conti da saldare, di rate, mutui, e nessuna speranza. Guardava, e non vedeva nulla. Forse era per quello che dopo quattro anni di matrimonio, rinfresco nei locali della parrocchia e niente viaggio di nozze, erano senza figli.

Lavoravano, e andava sempre un po’ peggio. Anche la moglie, con le pulizie delle scale, era in bilico, perché quelli del livello superiore dovevano risparmiare, quindi andavano dalla sua capa, e le dicevano di dover tagliare le spese delle pulizie condominiali. O così, o così. Sistemata la faccenda, volavano a New York, è così bella d’estate, ed era tutto vero, probabilmente: zeppa di gente come loro, non poteva che essere smagliante.

Poi arriva la moglie; Fabio è certo che sia una delle poche donne al mondo belle anche alle cinque del mattino. Non è l’amore che gli fa credere questo, bensì la realtà. Una serie di dati di fatto: i lunghi capelli neri, ondulati, il taglio delle labbra, il volto regolare, persino le rughe sono preziose.

Le dice:

- Perché non proviamo a fare qualcosa di diverso?

Lei sorride, versa il caffè nella tazzina, si siede al tavolo della piccola cucina, pulita e ordinata.

Mette da parte il sorriso:

- E cosa? -. Paola conosce quel genere di domande che non portano da nessuna parte, a intervalli fissi sgorgano fuori, più o meno sempre a quell’ora. Mai nel fine settimana, lì c’è una parvenza di vita degna, migliore insomma, e non bisogna scuotere quel piccolo incantesimo, bensì goderselo. Centellinarlo.

A differenza di Fabio, dopo il liceo classico, avrebbe dovuto frequentare l’Università, ma non si poteva osare ancora. I suoi nemmeno erano andati oltre le medie, lei già aveva migliorato la razza, il dna, e viene il tempo in cui bisogna fermarsi, dire basta. Non perché non si sia in grado di raccogliere la sfida, di vincerla: mancano i soldi.

Fabio finisce la colazione, sposta nel lavello di alluminio la tazza, posate e tazzina: rimugina sulla domanda, sa che prima o poi deve decidersi. Smettere di porla, oppure inventarsi davvero qualcosa. Ma non ha idee, denaro, dovrebbe farsi amico qualcuno, riallacciare certi rapporti. Un paio di suoi compagni di scuola sono in politica, distribuiscono favori e lavori come fossero strette di mano; purtroppo lui ne ha orrore. Ed è un altro orrore, diverso da quello che prova quando supera la soglia della cella frigorifera, lo farà nel giro di un’ora e mezza; è una fucilata di freddo che trapassa guanti, maglie, sciarpe. Lui non bestemmia mai, è un tipo per bene, però se Cristo invece di morire e resuscitare avesse folgorato Erode: sarebbe servito da lezione a tutti gli altri.

- Questa non è vita -. Dice.

- Quindi?

- Forse ci manca il coraggio.

- Per fare cosa?

Fabio adesso è accanto alla finestra, scosta le tendine, dice:

- Guarda. E’ bellissimo. E non possiamo farci niente, al massimo osservare, gettarci un’occhiata mentre puliamo le scale, o prima di entrare nella cella frigo. Ne prendiamo uno spicchio, nemmeno quello, solo qualche briciola. Noi abbiamo diritto a tutto, come gli altri.

Sì, più o meno le medesime frasi che si rincorrono, un valzer che alla fine s’interromperà per stanchezza, lei lo sa; eppure vorrebbe che durasse per sempre. Che ci fosse anche negli anni prossimi, sino alla fine dei giorni, se non altro perché culla l’illusione che qualcosa può cambiare.

Spalma la marmellata su un paio di fette biscottate, anche lei sente il richiamo, le fa compagnia quasi ogni giorno, non sempre perché pulire le scale sembra una faccenda da poco, eppure così non è. Bisogna avere la testa libera, sgombra da sciocchezze o distrazioni, curare i dettagli, svolgere il proprio lavoro con precisione e velocemente, e tutto deve essere a regola d’arte. Quelli del livello superiore pretendono, ma a malapena sono capaci di dare; e se lo fanno, devono essere certi che chi riceve sia innocuo, o lontano. Per questo sono estimatori delle foreste tropicali, dei bambini africani: nessuno di essi presenterà il conto, chiederà ciò che spetta loro di diritto.

Di notte, prima di dormire, Paola serra con forza le palpebre, e scorge bagliori, luci: non è matta. Sono un richiamo, scampoli di qualcosa di migliore, che la seguono, la perseguitano. Per rammentarle che lei, loro due insomma, possono essere nel buio più atroce che gli uomini riescono ad architettare. Però non è possibile liberarsi da quella nostalgia, quel desiderio di una vita vera che nessun lavoro meschino, nessuna desolazione può uccidere.

Paola finisce di mangiare, forse gli deve una risposta, anche a se stessa. Invece si alza da sedere, finisce il caffè nella tazzina, le piace senza zucchero, posa piattino e tazza nel lavello, si avvicina a Fabio, e lo bacia su una guancia:

- Buona giornata.

Si ritira nella stanza: deve rifare il letto, vestirsi, e sta sprimacciando i cuscini quando sente la serratura della porta blindata che scatta, i passi del marito che scende le scale. Ancora qualche istante, e il motore diesel dell’autovettura si mette in moto, esce dal parcheggio, e mentre si allontana, sente in quell’accelerata la rabbia. Dovrebbe aprire la finestra, agire in fretta, ma non ce la fa. Si siede sulla sponda del letto, ha un magone che le mozza il respiro.

Infine si arrende, e piange. Si porta la mano alla bocca, chiude gli occhi e si piega un poco in avanti, le lacrime precipitano sul piccolo scendiletto chiazzandolo di ombre scure. Le spalle sussultano per almeno un minuto; poi smette. Spalanca gli occhi, la bocca per respirare, farsi forza. Si soffia il naso, non c’è più molto tempo, e rischia di arrivare tardi al lavoro.

Forse un figlio avrebbe potuto aiutarli, ma troppe erano le variabili, e nessuna in mano loro. Chiude la porta della stanza da letto, poi la finestra della cucina, recupera le chiavi, spegne tutto, ed esce.

Cammina sino al termine della via, in salita, mentre il rombo delle automobili sull’autostrada, culla i brandelli di sonno che resistono, annebbiano la vista. Dal fondo della strada, sbuca l’autobus arancione, si affretta sino alla fermata, stende il braccio, non c’è nessuno ad attenderlo, a parte lei. Sale, c’è già un controllore, e gli mostra l’abbonamento mensile.

Chiede:

- Mi scusi, è vero che con l’anno nuovo aumenta?

L’uomo, alto, magro, si stringe nelle spalle, non è uno dei soliti musoni cui bisogna strappare le parole con le tenaglie, e risponde:

- Guardi, il biglietto sicuramente. Per l’abbonamento sembra che cercheranno di mantenerlo uguale.

Paola ringrazia, e siede dietro l’autista, è contenta perché ha ricevuto una buona notizia. Mentre pensa a questo, e vede sfilare i palazzi, ci si sposta verso il centro dove scenderà, camminerà per un tratto in via Paleocapa dove la capa l’aspetta: ha un sussulto.

Mormora qualcosa, del tipo:

- A questo ci siamo ridotti. A essere felici per un abbonamento che non aumenta. A questo ci hanno ridotti.

Resta immobile, non si accorge dello scorrere del tempo, della strada, è la sua fermata quella. Quando se ne rende conto è tardi, e deve attendere quella seguente per scendere, tornare indietro di corsa, e arrivare in ritardo.

Forse se la caverà con una lavata di capo, e nessuna decurtazione dello stipendio. Forse.


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