La storia ci ha proposto, per millenni, situazioni in cui la capacità del singolo ha prevalso sulla logica pre-ordinatrice di un sistema politico e di governo di una comunità. La democrazia intesa come “governo del popolo” fallisce proprio laddove dovrebbe esprimere il proprio meglio, ovvero nella capacità di fornire indirizzi certi agli individui circa l’esito della loro vita pubblica e personale: lavoro, salute, famiglia, istruzione.
Siamo costretti ad “arrangiarci”. Siamo costretti a intravedere nel nostro comportamento egoistico un barlume di correttezza, perché senza di esso non siamo in grado di sopravvivere come uomini come artisti, come lavoratori, come famiglie.
Il gruppo si rimpicciolisce. Non sono più i grandi schieramenti che vincono la battaglia dell’organizzazione per la sopravvivenza e al loro posto nascono e nasceranno le micro aggregazioni in cui il controllo del processo intuizioni-direzione-risultato è stimabile ed apprezzabile da subito e con relativa certezza.
Esattamente come diverse decine di anni fa il centro della vita e dell’economia dell’individuo era la piccola aggregazione, il cortile della casa di ringhiera, il consesso di artisti e il loro luogo eletto a ritrovo, così ora dobbiamo imparare a riconsiderare le individualità e il loro stretto entourage. Amici, famiglia (quest’ultima con la dovuta cautela), conoscenze dirette svincolate dalle lusinghe del machiavellico secondo fine della carriera plutocratica. Semplici ma efficaci linee di contatto tra individui che, comprendendosi, riorganizzano le proprie vite per confondersi in un’unica microstruttura capace di far fronte ai bisogni di tutti.
Non è un concetto nuovo. L’asserragliarsi in comunità autogestite sottraendosi (per quanto possibile) alle gioie di un assillante dovere civico di rispettare i bizantinismi generati da coalizioni di politici di professione, è cosa che ha permeato ogni società che sia vissuta sulla faccia della terra dagli albori della storia.
Lo stato come istituzione (così come la chiesa) ha teso a concentrare il proprio potere sul denaro e sull’informazione per poter meglio inoculare i propri virus mediatici, le proprie regole costruite sulla base di soluzioni “buone per tutti ma utili a nessuno”, senza dovere al singolo alcuna spiegazione se non quella del mistero della fede: tu mi hai votato (o mi hai scelto) ora ti devi fidare di me.
Tuttavia i processi di controllo sul denaro e sull’informazione non possono sopravvivere eternamente anche se continuamente modificati e resi sempre più potenti e inossidabili. L’informazione è uno scettro fin quando non è di pubblico dominio. Non a caso le grandi speculazioni (e anche le piccole) nascono e sopravvivono solo fino a che non viene garantita una asimmetria informativa: io so, tutti gli altri non ancora. E la speculazione genera surplus di profitti che si distolgono da una migliore occupazione: permettere all’individuo qualunque (ovvero senza prerogative di elezione) di usufruirne e farle rendere al meglio.
L’economia di mercato (che tanto piace ai governanti pseudo liberisti di ogni paese) vorrebbe l’allocazione delle risorse tesa verso l’efficienza e l’efficacia. Negli stessi sistemi di mercato vengono però introdotti ad arte meccanismi che creano asimmetrie informative e quindi potere sulla conoscenza e conseguente creazione di sovraprofitto non giustamente riallocabile.
L’Arte (perché è di questo che – tra l’altro – qui ci occupiamo) come la Cultura hanno bisogno di risorse. Perché ogni società necessita della Cultura e dell’Arte per sopravvivere, perché esse aiutano ad evitare che le scelte degli individui si basino su convincimenti altrui e non sui propri.
L’Artista produce, la Cultura produce. Non sovraprofitto da accumulare, ma valore da condividere come insegnamento e ispirazione. Eppure le risorse e il sovraprofitto non vengono redistribuite alla cultura ma reinserite in un prodigioso sistema che alimenta il loro stesso impoverimento.
Ritorniamo allora alle micro aggregazioni. Ritorniamo al concetto di sostenibilità di una crescita sociale che includa la Cultura e l’Arte come fondamenta. Recuperiamo il mecenatismo, il contatto diretto del sovraprofitto con l’Arte. Perché senza Arte e senza Cultura si disgregano anche gli imperi apparentemente più solidi e più forti. Non servono a nulla eserciti armati quando l’annichilimento della società nasce dal suo interno come uno stupido morbo che, pezzo dopo pezzo, rende inutili prima gli arti e poi le finzioni vitali dell’organismo fino alla morte del tutto.
Gli stessi eserciti, privati delle proprie convinzioni, paradossalmente sono un pericolo per la struttura sociale che avrebbero dovuto difendere.
Il denaro, scoperta mirabolante dell’uomo per evitare le insidie del baratto, ha preso a vivere di vita propria. Non più mercede, salario, giusto compenso per un’attività – anche artistica – che permetta di vivere ed essere dignitosamente fieri di contribuire alla crescita culturale della propria società. Ma bene esso stesso. Da stimare e rivendere (il denaro ha – surrealisticamente – un suo prezzo!) solo a chi se lo può permettere. Attraverso strutture controllate e ben salde nelle mani di chi possiede anche il dominio informativo: le banche.
Esse gestiscono, come accorto lenone, le grazie del denaro, a volte concedendosi a volte negandosi per giocare al più pericoloso dei giochi d’azzardo: la sopravvivenza stessa della società.
Siamo testimoni di situazioni paradossali in cui il denaro (frutto di sovraprofitti non equamente redistribuiti) finisce la sua breve esistenza nelle casse delle banche che, per rendergli onore!, lo utilizzano per riprodurlo uguale a se stesso per il solo fine dell’accumulazione improduttiva.
La Cultura, l’Arte hanno bisogno di risorse perché si confrontano con una realtà nella quale il denaro è necessario per la sopravvivenza dell’artista stesso. E all’Arte non viene concessa alcuna chance di far parte del sistema redistributivo attuale (se non attraverso incontrollabili assegnazioni predestinate).
Abbiamo allora bisogno delle microstrutture. Di attenti e illuminati Mecenati che non si fanno lusingare dal Pantagruele cosmico che richiede risorse per poi distribuirle – male – a pochi e spesso senza meriti.
L’Arte ha bisogno di chi sceglie di distogliere risorse dal sistema macchinoso che le distrugge, per affidarle a chi attraverso esse sopravvive e produce linfa vitale per la stessa società. Linfa che consiste negli strumenti stessi per consentire agli individui di diventare tali.
Dobbiamo evitare – sempre che sia ancora possibile – una recessione culturale. L’Artista deve innanzitutto constatare se il periodo attuale sia lo stadio terminale della società o se si stia presentando, allo stato larvale, un nuovo sistema sociale e culturale. Nel primo caso dovrà porre l’attenzione sulla propria capacità di gestire il difficile processo di transizione. Proveniamo da un periodo prolungato di assenza di movimenti artistici e culturali condivisi su larga scala sociale. Questo determina una necessità impellente di proporre uno schema transitorio che minimizzi i danni prodotti dalla depressione conseguente l’esito finale a cui la società civile è sottoposta.
Oppure, nel secondo dei casi sopra menzionati, l’Artista dovrà rendere visibili le proprie convinzioni e farle diventare collante per costituire aggregazioni che ne condividano il senso e le finalità e con esse conferire, almeno per quanto possibile e per la propria parte, una direzione alle necessità culturali della nuova società.
In ciascuno dei casi è però necessario un supporto all’Arte. E agli Artisti. Un supporto svincolato dalla società (perché essa non esiste più o non esiste ancora) e dalle sue istituzioni che punti direttamente al “prodotto” dell’Artista.
La vecchia società ha bisogno di un requiem per alleggerire le pene del suo trapasso. La nuova società avrà bisogno di linfa culturale per crescere evitando gli errori e le mancanze dello scheletro che si trova alle sue spalle, consunto dalla mancanza di reali sostanze nutritive e drogato dalla assunzione di facili surrogati generanti dipendenza e alienazione psicotica.
IDM Dixit