Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Giuseppe Guerrini

Creato il 24 luglio 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Si legge che è un piacere il delizioso “La nuvola di Matteo” di Giuseppe Guerrini, compiuto e gentile racconto, scritto con un’essenzialità stilizzata e visiva allo stesso tempo.

Parla della strana comunicazione che s’instaura fra un bambino e una nuvola, amica immaginaria, sorta di primo amore, metafora di amicizie uniche, labili e preziose, capaci di attenuare per un momento lo sconfinato senso di solitudine, simbiosi d’amore, in un mondo fatto di animismo e fantasie, emozioni di un’infanzia che sogna.

C’è un’infinita dolcezza in quel “guardare il cielo”. Matteo gioca con le nuvole, dialoga con loro, le chiama per nome, si solleva oltre il suo mondo e sceglie “l’amica”, quella nuvola, “la sua nuvola”. I due amici hanno una lingua segreta, fatta di “pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri fra il grano” e “risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore” in un codice segreto, decifrabile solo con gli occhi di un cuore bambino. Nascono così “giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia”, destinati a finire come tutte le cose belle. La morte della nuvola, presagita da “piccoli vortici tristi” è la fine del sogno, dei misteri del cuore di un bambino e il passaggio alla vita normale. Si diventa “normali” quando si cessa di volgere gli occhi al cielo, o quando, sollevando nostalgicamente lo sguardo, non si riesce più a scorgere la “propria nuvola”.

Senza artifici linguistici, né ricerche di effetti speciali, con un linguaggio classico, lieve, l’autore, in questo racconto bello e commovente, dipinge immagini piene di poesia e riesce a regalare una visione suggestiva del mondo infantile.

Patrizia Poli e Ida Verrei

La nuvola di Matteo

Matteo aveva otto anni e guardava le nuvole. Guardava sempre le nuvole. Gli piacevano proprio quelle cose lontane, informi e mutevoli sospese nel cielo. Era capace di passare interi pomeriggi steso sull’erba, perduto a guardarle nascere, trasformarsi, dissolversi o correre via portate dal vento. Se gli avessero chiesto cosa voleva fare da grande, avrebbe risposto “il meteorologo”. In verità Matteo non era tagliato per le scienze esatte, cose come “temperatura di rugiada” o “entalpia di condensazione” non erano per lui. Il suo interesse non era scientifico: per Matteo le nuvole erano amiche, compagne di strada a cui rivolgere un saluto, raccontare storie.

I suoi genitori erano preoccupati. Avevano cresciuto il loro bambino con amore, accompagnati dalle ansie consuete – i rischi di troppa televisione, i videogiochi violenti, i pericoli di Internet… Invece era loro toccato in sorte un bambino contemplativo, sognatore, che non impazziva per la Playstation, si stancava subito di televisione, non era attirato da Internet, e preferiva scorrazzare per la campagna con la sua bicicletta rosso vivo, sempre da solo, inseguendo chissà quali fantasie. Oppure guardava il cielo. Tanto bastava a farlo contento. Amava soprattutto certi pomeriggi estivi, quando, quasi dal nulla, si materializzano cumuli che crescono in altezza, netti e bianchissimi contro l’azzurro, poi lentamente scuriscono e si sfrangiano sulla cima allargandosi come un fungo minaccioso. Matteo sapeva che quelle torri di vapore ospitavano temporali, e poterle godere da lontano nella loro interezza gli dava un’ebbrezza strana, come se fosse capace di abbracciarle, come se gli appartenessero.

Matteo aveva inventato una classificazione tutta sua per le nuvole. C’erano le “cavalcatrici”, che correvano portate dal maestrale accavallandosi e mutando forma in continuazione, le “ritagliate”, che sembravano brandelli di bianco tenue spezzati dai venti d’alta quota, le “tremoline”, attraversate da strisce di piccole onde fitte, e naturalmente le “pecorelle”, e tante altre. C’erano anche le “sentinelle”. La famiglia di Matteo abitava in campagna, nella pianura che terminava ai piedi di una montagna appuntita. Attorno a quella cima si formavano a volte delle nubi sommitali, che anziché essere portate via dalle correnti sembravano indugiare sul versante sopravento come se ci abitassero. Erano quelle le “sentinelle”. Matteo pensava che quelle fossero nubi speciali, vive, perché parevano opporsi al vento che le avrebbe dovute allontanare. Non poteva sapere che era proprio il vento atlantico a generarle spingendo in alto lungo il pendio l’aria umida, e che sembravano ferme perché in realtà si rigeneravano in continuazione, evaporando da una parte e condensando dall’altra. Quando si formava una nuvola di quel tipo Matteo la osservava a lungo per vedere se si stancava di sostare nei paraggi della cima e magari le veniva voglia di muoversi verso di lui o curiosare lì attorno. Non era mai accaduto, ma questo non lo scoraggiava affatto.

Un giorno d’inizio estate era comparsa una di quelle nubi, e Matteo, al solito, l’aveva tenuta d’occhio per tutta la mattina, naso per aria mentre pedalava tra i campi di grano. La nuvola sembrava all’inizio starsene raccolta, appallottolata timidamente presso il monte. Più tardi però parve prendere coraggio, si allargò e sfilacciò un poco, infine protese un lembo verso la pianura, proprio nella direzione di Matteo. Quando si fece ora di pranzo Matteo si diresse verso casa. Giunto sulla soglia, gettò ancora un’occhiata verso la cima. Fu allora che si accorse che dalla nube usciva un piccolo ricciolo di vapore, che si dissolse rapidamente. Un saluto! La nuvola lo stava salutando! Matteo ne fu felice, ma non tanto sorpreso, gli parve anzi del tutto naturale rispondere al saluto. Agitò le braccia rivolto verso il monte ed entrò in casa contento. Mangiò in fretta e furia e tornò subito fuori, ignorando le raccomandazioni della mamma e rispondendo “C’è la nuvola!” alle sue obiezioni preoccupate. Lei lo lasciò andare, sospirando rassegnata e domandandosi ancora una volta cosa mai avessero da rimproverarsi lei e suo marito come genitori.

La nuvola era ancora là, appoggiata alla cima. Matteo iniziò a pedalare tra il grano nella sua direzione, e lei emise due propaggini che Matteo interpretò come un segno di benvenuto. Ne fu felice: ormai erano diventati amici. Rispose al saluto correndo su e giù per i sentieri. Trascorse così tutto il pomeriggio, parlando alla nuvola di cose che non avrebbe saputo spiegare, nel misterioso codice fatto di pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri tra il grano con la sua bicicletta scarlatta, e decifrando risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore. Al tramonto la nuvola si colorò di rosa sfumato in viola, e parve ritirarsi presso la cima. Matteo lo interpretò come un gentile segno di congedo, così la salutò e rientrò in casa, felice come non mai. Prima di andare a dormire volle darle un’ultima occhiata discreta. Sbirciò cautamente dalla finestra per non disturbarla. La nuvola ricopriva la cima con un manto uniforme che si distendeva placido sul pendio, risplendente di luce lunare. Sembrava pulsare piano, come per un lento respiro. “Sta dormendo”, pensò Matteo rassicurato, e si coricò sereno.

I giorni che seguirono furono per Matteo i più felici mai vissuti, giorni di gioia, meraviglia, scoperta. Giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia. Corse infinite sui pedali, disegni tracciati con le ruote nelle stoppie del grano appena mietuto, a dialogare con la sua amica nella loro lingua segreta, un dialogo fatto del piacere di conoscersi, dell’affetto, di cose piccole come il suo cuore bambino, troppo grandi per essere raccontate. La nuvola pareva capire, ora aprendosi, ora arrotolandosi; sorrideva in piccoli vortici di vapore, lo accarezzava da lontano allungando un lembo candido. Era il suo modo di rispondere a Matteo, o così lui credeva, chi può dirlo?

Qualche giorno dopo, appena alzato, Matteo sentì in televisione le previsioni del tempo. Il clima stava per cambiare, il meteorologo alludeva a un “anticiclone” che avrebbe portato aria secca e vento di bora. Matteo non aveva idea di cosa fosse un anticiclone, ma sapeva che la bora dissolveva le nubi sentinelle. La sua nuvola era in pericolo! “Mamma, cos’è l’anticiclone?” chiese angosciato, come se conoscere la risposta gli conferisse il potere di cambiare le cose. “Non lo so, Matteo. È aria, credo. Chiedilo al babbo quando torna”. Matteo però non aveva tutto quel tempo: doveva avvertire la sua amica, salvarla! Corse fuori lasciandosi alle spalle i rimproveri sconsolati e inutili della mamma. Inforcò la bicicletta e iniziò a tracciare linee spezzate, angoli acuti a rappresentare la minaccia. La nuvola inizialmente gli sembrò sorpresa, confusa, attraversata com’era da sottili ombre grigie. Matteo continuò, inventando nuovi segni: “Scappa, nuvola, scappa o morirai!” scriveva nelle stoppie, “Fatti portare via dal vento, non restare qui!”. Ma la nuvola non si muoveva, non poteva allontanarsi. Allargava lembi sfilacciati di bianco tenue mentre si sgonfiava al centro, come a giustificarsi per non poter andare via. Matteo capì che alla sua amica non era concesso altro che rimanere lì, vicino alla cima, a dissolversi sotto i suoi occhi. Intanto l’aria stava già cambiando. Il vento aveva iniziato a girare, e l’azzurro del cielo diventava più carico, più cupo. Il profilo delle colline si faceva netto, i colori più marcati. La nuvola iniziava a sfumarsi nei contorni, e piccoli vortici tristi la attraversavano. “Non sparire, povera nuvola mia” tracciava Matteo sulla pianura, ma lei diventava ogni minuto più tenue. Allora Matteo lasciò un ultimo ampio cerchio, come un abbraccio, e si fermò a guardare, piangendo e singhiozzando. I lembi ormai pallidi della sua amica sembravano ancora volerlo accarezzare, consolarlo e cercare conforto, sempre più labili. Restò infine un piccolo ricciolo di vapore, come un ultimo saluto, che si arrese al vento disperdendosi. “Addio nuvola mia, addio!” gridò Matteo tra le lacrime. Rimase ancora a lungo a guardare la montagna completamente sgombra. Il cielo terso, di un blu profondo, e l’orizzonte lontanissimo e netto rivelavano l’immensità del mondo. Matteo sentì una solitudine sconfinata.

Passò la bora e arrivò il maestrale, accompagnato da nubi frettolose, candide e mutevoli. In altri tempi Matteo avrebbe passato ore ad ammirarle, ma adesso non gli dicevano molto: non erano come “quella” nuvola. Ogni tanto guardava ancora la cima, ma era sgombra.

Passò anche il maestrale, tornò il vento atlantico, caldo e umido. Si formò una nuova nube sentinella. Ma non era “quella” nube. Matteo si accorse di avere perso gran parte dell’interesse per le nuvole. Prese ad annoiarsi, e così cominciò a frequentare i suoi coetanei. Dovette condividere i loro interessi, e dopo un po’ iniziarono anche a piacergli. I suoi genitori erano contenti: finalmente avevano un figlio “normale”, dicevano. Ogni tanto però Matteo gettava ancora uno sguardo alla montagna. Spesso c’era una nube presso la cima, talvolta anche molto bella. Ma non meritava attenzione: non era “la sua nuvola”. Quella non sarebbe tornata mai più.

Giuseppe Guerrini


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