Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Pia Deidda

Creato il 22 luglio 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Abbiamo deciso di riproporre in questa sede i migliori racconti di tre anni di attività del Laboratorio di Narrativa

Cominciamo con Pia Deidda e il suo "Di queste notti insonni"

In “Di queste notti insonni” Pia Deidda ricostruisce in modo magistrale un ambiente arcano e rurale. Una piccola, minuscola, donna è la protagonista di questo racconto delicato, incentrato su un “femminile” d’altri tempi e altri luoghi, ma ancora vivo nella memoria di società patriarcali.

In una camera, in uno spazio notturno illuminato solo dalla luce fioca di un lume a olio e dal rosseggiare delle carbonelle di un braciere, si consuma un’esistenza grama, un’inconsapevole rassegnazione, simbolo di un’antica rinuncia al riscatto. Nastassia e Bartulu, una donna e un uomo: lui, solo una massa umidiccia e maleodorante sotto la trapunta, sui tre materassi del letto a baldacchino… un russare, un gorgoglio, uno sbuffo, un grosso naso rosso solcato da capillari… Lei, quasi evanescente, con i piccoli piedi freddi, raggomitolata tra la preziosa biancheria profumata di lavanda, unica consolazione in quel suo povero mondo fatto di coercizione e di dominio. Ed un pensiero… quasi un ambito sogno, in quel presente oscuro e senza prospettive: la morte come soluzione, come cambiamento. Ma è solo una fugace idea, un balenio nella mente… “Per tutto c’è tempo”.

Il lettore sente il freddo dello stanzone, delle lenzuola ghiacce, dei piedi illividiti, la ruvidezza della camicia da notte, l’umidità delle calzette di lana appese ad asciugare.

Al centro del racconto, troneggia la descrizione del letto a baldacchino, “alto e regale”, simbolo di un amore gelido e mancato, di “incolori e ghiacce notti”. La protagonista, tuttavia, lo riveste di “pizzo e frangette a pippiolini”, di ricami e racemi, seguendo il volo della sua fantasia, della sua arte, della sua vitalità tarpata.

Il braciere, che compare all’inizio del racconto, torna nella chiusa, a completare un cerchio che tiene in sé tutta la vita della protagonista, fino a un desiderio di morte che non è neanche un vero impulso a farla finita, ma è solo un’assenza di azione, di slancio, è un vuoto totale per il quale, ahimè, c’è sempre “tempo”.

Il linguaggio mescola parole semplici, ripetute a rafforzare la concretezza di oggetti comuni, come il legno, la tela, la brace, ad altre più desuete e scelte.

Patrizia Poli e Ida Verrei

DI QUESTE NOTTI INSONNI

Nastassìa si china e, sollevando la lunga camicia da notte di pesante tela, osserva i piccoli piedi scalzi poggiati sull'impiantito di legno. Sono violacei e freddi, tanto freddi. Punta il peso sui talloni e inarca le lunghe dita, qualche gelone già s'intravvede.

Davanti al camino della grande cucina sono stese, su un filo legato teso fra due sedie, ben quattro paia di calzette di lana ruvida. Ma sono ancora umide e Nastassìa ha i piedi nudi.

Non riesce ancora ad organizzarsi nel bucato; fa difficoltà a calcolare la quantità di panni da lavare ogni volta e i tempi fra lavaggio, asciugatura e stiratura.

Ė per questo che i suoi piedi quella sera sono freddi. Anzi gelidi. Bisogna considerare anche che il suo Bartùlu, dopo il tramonto del sole, non mette più ceppi di legna nel camino, che piano piano si spegne lasciando poche braci rossastre e polvere fine grigia ormai fredda.

Lei raccoglie, prima che si spenga tutto il fuoco, quei tizzoni di brace ardente e li mette nel braciere di rame collocandolo al centro della stanza da letto.

Nastassìa si strofina le braccia cercando un po' di calore e guarda in alto sul letto. Gli arriva il suono grasso, cadenzato da un sibilo intermittente più acuto, del russare del suo Bartùlu.

Si prospetta un'altra notte quasi insonne, pensa, mentre mette il piede sul primo gradino della scaletta. Guarda in alto e si tiene ben salda con le mani. Quell'operazione le mette sempre apprensione ogni notte. Anzi, due volte al giorno. Al mattino quando deve rigovernare il letto e alla sera quando si appresta a dormire.

Soffre di vertigini Nastassìa da quando è piccola. Ricorda ancora molto bene di quando con i bambini del paese, eludendo la sorveglianza del vecchio sacrestano Peppineddu, si saliva furtivi sulla torre campanaria. Lei arrivava solo alla prima rampa e, mentre una strana ansia la prendeva, non riusciva ad andare oltre il primo pianerottolo. Era sempre la prima ad essere presa da Peppineddu mentre gli altri più svelti già suonavano la campana con rintocchi stonati.

Il suo è un letto da veri signori; fatto costruire dal suo Bartùlu su modello di uno continentale visto in una vecchia stampa arrivata fino a Ittiri da chissà dove e appesa da chissà chi su un vecchio muro scrostato della taverna del cambio postale.

Ė un alto letto a baldacchino di legno che sfiora il basso soffitto di travi di legno. Bartùlu ha voluto che il ripiano che accoglie i tre alti materassi fosse sollevato da terra per proteggere la sua sposina dal freddo che proviene dal pavimento e dai topi che vi scorrazzano indisturbati durante la notte.

Non sa Bartùlu che Nastassìa sa, perché glielo ha detto la vecchia Mariedda, la paura che aveva provato da bambino quando era rimasto rinchiuso per sbaglio tutta la notte dentro il grande magazzino dietro il mulino. L'avevano trovato all'alba che ancora saltava da una gamba ad un'altra pallido come un cencio.

La scaletta l'ha voluta lei perché quel letto gli è sembrato, già dalla prima volta, invalicabile. Minuta, senza forza nelle magre braccia, non aveva avuto l'agilità per saltarci sopra la prima notte che da sposina entrò in quella grande camera. Bartùlu capì da subito che forse sarebbe stato il caso di far costruire una piccola scaletta per la sua piccola sposa.

Nastassìa sale lentamente gli stretti scalini e i piedi freddi e magri dolgono un po' ad ogni passo. Insomma è una impresa titanica arrampicarsi lassù ogni notte. Poi a lei duole la schiena la sera perché non è ancora abituata a fare i lavori di casa. Bartùlu le aveva promesso prima delle nozze l'aiuto di una serva, ma, ad un anno dal matrimonio, non ne aveva visto nemmeno l'ombra.

Ogni notte salendo la scaletta ammira i tessuti che ricoprono gli alti materassi e il baldacchino. E' il suo orgoglio di sposa quel tripudio di filati e ricami. Quando arrivano le comari o le amiche per farle visita lascia sempre la porta semi aperta affinché s'intravveda il suo capolavoro.

Ha lavorato alacremente per mesi per poter trasformare quello spoglio legno e quella scheletrica impalcatura in una alcova calda e accogliente. Se deve esistere che sia almeno bello, aveva detto timida sposina a capo chino e ad occhi semichiusi appena l'aveva intravisto mentre Bartùlu si stava spogliando dagli abiti nuziali.

Aveva subito pensato ai grandi teli che avrebbero coperto il baldacchino. Sarebbero stati cuciti insieme pezzi di leggero tulle rosato che lei nel frattempo aveva ricamato a punto pieno nei risvolti in vista e rifinito con un pizzo a frangette e pippiolini fatto all'uncinetto. Non aveva copiato un disegno preciso, a lei piaceva anche improvvisare. Erano motivi geometrici che seguivano un ordine sparso un po' casuale. Alla fine era risultata un'opera che aveva una sua caotica armonia.

Per coprire il ripiano di legno aveva invece usato una tela grossa di canapa anch'essa rosata tessuta con motivi in rialzo di asfodeli e pavoni affrontati di un rosa intenso. Il primo materasso l'aveva rivestito di un tessuto bianco di lino a motivi tono su tono a nodini che seguivano un disegno a rombi alternati convessi e concavi. Era stato un lavoro molto impegnativo riuscire a contare al telaio trama per trama, ordito per ordito, e non sbagliare nemmeno un passaggio.

Il secondo materasso l'aveva ricoperto con un tappeto di lana dai colori rosso, giallo e blu squillanti su fondo chiaro. Uomini e donne si tenevano per mano in un ballo tondo che non sarebbe finito mai. E qui sospirò Nastassìa pensando che il suo Bartùlu l'unico ballo che aveva fatto in vita sua era stato il giorno del loro matrimonio quando era stato preso con la forza dai compari di anello. Non avrebbe ballato mai più Bartùlu. Ma neanche Natassìa.

Il terzo e ultimo materasso era ancora coperto da una nera coltre pesante di orbace. La bella coperta all'uncinetto filè era ancora dentro la cassapanca e non era stata ancora completata. Nastassìa riusciva però a ricavarsi molte ore di lavoro per ultimare la sua opera rubandole al governo della casa e alla cucina. Bartùlu più volte se ne era lamentato, specialmente quando tornava dal mulino alla sera stanco e affamato e trovava il desco vuoto ma la giovane mogliettina al telaio.

A completare l'opera c'era la finissima biancheria del suo ricco corredo. Le lenzuola e le quattro federe le aveva riccamente ricamate con orli a giorno e punti pieni e a catenella. Fiori, fogliette e racemi giravano leggeri lungo i contorni per dirigersi verso il mezzo, mentre pizzi sottili e delicati realizzati al tombolo ne ornavano i bordi.

Bartùlu dorme alla grande. La bocca aperta ora emana un gorgoglio come l'acqua che passa nelle condutture che azionano la macina del mulino. No, non si è proprio abituata a quei suoni mutevoli che accompagnano il trascorrere delle sue notti. S'infila piano piano dentro le lenzuola fredde, anzi gelide. Si raggomitola per riscaldarsi con quel poco calore che emana il suo corpo. Bartùlu no, non lo tocca; il suo corpo è caldo ma lo trova umidiccio ed emana un odore che sa di farina e fuliggine; neanche la lavanda che mette dentro le federe lo riesce a mitigare.

E, mentre pensa questo, le arriva una zaffata del suo alito pesante. Lo osserva alla luce tremula della lampada ad olio. Riuscirà con il tempo ad accettare questo uomo che le è stato imposto come marito? Pensa che sarà difficile riconoscere quest'uomo di vent'anni più grande di lei come l'uomo della sua vita. Si gira dall'altra parte e si copre le orecchie con il cuscino e sprofonda il naso nelle federe profumate.

Oh, no! Ha lasciato la lampada ad olio accesa sul tavolino. Se Bartùlu si svegliasse in questo momento sarebbe un rimbrotto che durerebbe per giorni. Deve ridiscendere, rifare il percorso intrapreso. Si dà della stolta, si scopre e mette i piedini sugli stretti gradini della scaletta. Si avvicina al tavolino e guardando la fiamma soffia sullo stoppino. La lampada si spegne di colpo. E adesso? Ripercorre la strada a tentoni, urta la sedia che cade. Bartùlu manda uno sbuffo come la pentola quando bolle con la carne di pecora dentro. Sbatte più volte sui gradini; sa che al mattino si ritroverà con lividi violacei sulle gambe. Salita si risistema nelle ghiacce lenzuola, si accovaccia stretta stretta abbracciandosi le ginocchia. Quanto è stupida; povero Bartùlu ad avere una moglie così incapace. Poverino.

Adesso il russare di Bartùlu è diventato un miagolio. E no, non riuscirà mai ad abituarsi. Come sarebbe stato bello sposare Gavino, il giovane servo pastore della sua famiglia. Ma i suoi genitori appena subodorato l'idillio si erano premurati di combinare in tutta fretta quel matrimonio che avrebbe dato lustro e dignità alla loro adorata bambina. Ed eccola qui con il suo Bartùlu a fianco in questo alto e regale letto; concepito più per appassionati e amorevoli incontri d'amore piuttosto che queste incolori e ghiacce notti, pensa Nastassìa vergognandosi delle sue fantasie nel momento in cui il suo cuore le formula. E si scopre a guardare il suo Bartùlu: naso grosso e rosso solcato da una miriade di piccoli capillari, la barba irta e sempre incolta, i denti giallognoli e marci.

Ma come fa a vederlo? Oh no! Ha dimenticato il braciere ancora acceso in mezzo alla stanza! Ma che stolta che è! Che donna fatua! Ecco cosa succede a perdersi in simili peccaminose fantasie!

Scende veloce e prende il braciere. Mai lasciarlo nella stanza per tutta la notte. L'aria diventerebbe mefitica e pericolosa. Potrebbero anche morire.

Già morire. Ma è solo un breve pensiero. Fugace, leggero, passa così come è arrivato. Tarlo invisibile che ogni tanto s'insinua nei suoi pensieri. Lei o lui non importa, sarebbe comunque un cambiamento.

Si dirige in cucina e posa il braciere dentro il camino, lo svuoterà al mattino. C'è tempo. Per tutto, c'è tempo.

© Pia Deidda 2010


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