1. Il mondo affronta una straordinaria crisi economica, sociale e politica, un processo silenzioso di degrado ambientale e una disputa (ancora sorda) per l’egemonia mondiale.
2. La crisi economica, che iniziò a diventare finanziaria nel 2008 a New York con il fallimento della banca Lehman Brothers, si trasformò rapidamente in crisi sociale, con la propagazione e la persistenza di alti livelli di disoccupazione dentro e fuori gli Stati Uniti e con effetti sul sistema politico ed i Governi di diversi paesi molto sviluppati.
3. In Europa, furono eletti politici conservatori e vennero scelti tecnocrati per guidare i Governi, ma tutti sotto il controllo e la direzione della Troika, formata dalla Banca Centrale Europea (BCE), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Commissione Europea.
4. La Troika, per liberare risorse per “salvare” i governi, debitori delle mega banche ed in una situazione di bilancio sempre peggiore a causa della recessione, ha richiesto ai Governi l’attuazione di politiche di austerità di bilancio, una sintesi della quale potrebbe essere questa: salvare le banche (e i loro azionisti) e per riuscirvi aumentare le tasse sui lavoratori e sulla classe media, procedere con la riduzione dei salari, tagliare i programmi sociali ed i benefici previdenziali. Queste misure, che hanno carattere “pro-ciclico“, creano la riduzione della domanda aggravando la recessione, aumentando la disoccupazione e le tensioni e le rivolte sociali, in particolare nei paesi che si trovano alla periferia dell’Europa, spesso chiamati in modo ironico e dispregiativo con l’acronimo delle loro iniziali in inglese PIIGS: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna.
5. Nel frattempo, negli Stati Uniti d’America, patria e maggiore promotore del neoliberismo, la competizione elettorale tra i repubblicani, di destra e di ultra-destra, ed i democratici, di centro e di ultra-centro, intorno alle poltrona presidenziale a novembre prossimo [l'Autore scrive a ottobre 2012, NdR], impedisce l’attuazione di una politica anti-ciclica efficace per superare la crisi. Delle misure adottate finora hanno beneficiato banche, banchieri, dirigenti ed investitori con l’acquisto di titoli tossici ed il versamento di migliaia di miliardi di dollari, mentre i lavoratori continuano a soffrire di disoccupazione e sottoccupazione e di stagnazione, da oltre 20 anni, del salario medio reale.
6. La crisi economica e finanziaria, che permane (in parte) causa la resistenza delle istituzioni finanziarie a essere regolamentate (inclusi i fondi nei paradisi fiscali) e, dall’altra parte, la riduzione delle aspettative di lucro che toglie l’avversione verso il rischio di nuovi investimenti dei capitalisti, si incontra nelle economie tradizionalmente sviluppate ma non nelle nuove economie capitalistiche della Repubblica Popolare Cinese, dell’India e di altri paesi emergenti come il Brasile, dove i profitti sono straordinari e gli incentivi agli investitori ancora più elevati.
7. Quando prendiamo a riferimento l’economia capitalista come un tutto, ovvero quando si considera l’economia mondiale, essa può essere paragonata ad una economia nazionale dove, mentre certe regioni (paesi) si espandono, altre regioni (paesi) si contraggono. I capitalisti e le loro mega-aziende sanno dove sono le opportunità di profitto, specialmente dove si incontrano le opportunità di profitti straordinari e in questi casi non mostrano nessuna avversione al rischio.
8. Ma gli effetti della crisi sui sistemi politici nazionali ed internazionali sono enormi. Vi è una straordinaria preoccupazione nelle classi egemoniche dei paesi capitalisti tradizionali, Stati Uniti e potenze europee significative, che sono Germania, Francia, Inghilterra e Italia (gli altri paesi europei hanno poca valenza politica ed economica) a causa della profonda insoddisfazione politica e sociale che pone a rischio il controllo politico specialmente nell’Unione Europea. Se da un lato investitori, capitalisti e multinazionali lucrano grazie all’espansione economica nelle periferie dei paesi emergenti, nel centro del sistema mondiale, altri membri della classe egemone, come politici, intellettuali organici e tecnocrati delle istituzioni internazionali, si preoccupano della sopravvivenza della loro egemonia e del sistema.
9. Dopo, la crisi nei paesi capitalisti centrali finisce per colpire i paesi emergenti a causa degli stretti legami che uniscono questi ultimi ai paesi sviluppati, in particolare nel settore del commercio. Così, temono che la crisi economica si possa diffondere in tutta l’economia mondiale, facendo sì che i profitti e le aspettative svaniscano e la crisi politica si globalizzi, compreso l’aggravamento delle dispute per mercati e per l’accesso alle risorse naturali.
10. In questo processo, vi è l’emergere della Cina (gli altri paesi emergenti non contano nella realtà o perchè sono solo fornitori di materie prime o per la necessità di affrontare sfide colossali, come nel caso dell’India, gravata del sistema delle caste, dal suo sistema politico complesso, dalla molteplicità delle lingue e delle culture e dalla sua base industriale minoritaria). Gli strateghi statunitensi vedono l’emergere della Cina come una grande sfida per ciò che essi stessi chiamano, con tutta la chiarezza e la sincerità, egemonia americana, il che significa, nella pratica, un sistema mondiale che risulta un beneficio politico ed economico per gli Stati Uniti, e di cui, secondo loro, beneficerebbe l’intera “comunità internazionale”, o per lo meno l’Occidente centrale e periferico.
11. In questo panorama internazionale, l’America del Sud si trova in una situazione marginale. La sua capacità politica di influire sulla grande crisi e sulla riorganizzazione del sistema mondiale è diminuita a causa della scarsa importanza della sua industria, dovuta alla sua mancata autonomia in quanto costituita, in gran parte, da megaimprese multinazionali, e per l’ordinarietà delle sue materie prime (nel senso comune) che hanno numerosi concorrenti tradizionali e futuri, che potranno provenire dagli investimenti fatti dalla Cina in Africa, e per la mancanza di unione politica.
12. In America del Sud ci sono tre Stati vincolati all’evoluzione dell’economia ed alla strategia economica degli Stati Uniti dagli accordi di libero commercio che hanno concluso (e che limitano gravemente la loro autonomia di politica economica): essi sono il Cile, il Perù e la Colombia, quest’ultima lacerata dalla guerra civile e vincolata dal “Plan Colombia” e dagli accordi militari con gli Stati Uniti.
13. I tentativi di unione sudamericana e ancor di più latinoamericana come la CELAC (Comunità degli Stati Latino-Americani e Caraibici) affrontano questa enorme sfida. Sono Stati asimmetricamente estremi, fragili, legati alla sfera di influenza economica e politica degli Stati Uniti. E’ una fatica di Sisifo, che può, se non si pone la debita attenzione, sviare l’attenzione dal compito principale che è il rafforzamento, l’espansione e l’approfondimento del Mercosur.
14. Brasile e Argentina, nucleo del Mercosur, hanno più del 50% del territorio, della popolazione e del commercio estero dell’America del Sud e della sua industria. Sono Stati che hanno conservato la loro capacità di pianificare e rendere esecutiva la propria politica economica ed estera. Tutto quello che gli strateghi nordamericani, con ragione, non desiderano, è vedere una più stretta unione di Brasile, Argentina e Venezuela, con le loro straordinarie riserve energetiche e minerarie.
15. Se aggiungiamo il Paraguay e l’Uruguay, il Mercosur raggiunge numeri straordinari, decantati nelle rappresentazioni più utopistiche che comparano il blocco sudamericano con altri blocchi di paesi.
16. I Paesi del Mercosur hanno affrontato le loro straordinarie disuguaglianze sociali ed economiche con decise politiche (nel caso sociale) per la loro riduzione. Il Venezuela è stato il paese che nella regione ha ottenuto i maggiori risultati nella riduzione delle diseguaglianze sociali e dell’alfabetismo; il Brasile con i suoi programmi sociali innovativi ha fatto grandi progressi nella riduzione della povertà assoluta e anche l’Argentina ha raggiunto notevoli risultati in questo campo.
17. Tuttavia si ha una scarsa comprensione o a volte insufficiente nei due maggiori paesi dell’America del Sud sull’urgenza e la priorità della costruzione di un processo e di istituzioni che permettano uno stabile sviluppo economico e politico regionale a partire dal Mercosur. Un esempio di ciò è la riluttanza nel rafforzare il ruolo del Segretariato del Mercosur, di ingrandire il Fondo per la Convergenza Strutturale del Mercosur (Focem), di organizzare il commercio interregionale delle megaziende multinazionali, di sviluppare concreti programmi per le scienze e le tecnologie.
18. Essi rimangono, e specialmente il Brasile, intrappolati nel mito del libero scambio, senza riconoscere che questo porterà verso una egemonia industriale brasiliana, indesiderata e pericolosa, e senza riconoscere il ruolo delle grandi industrie multinazionali nelle loro economie, nel loro commercio estero e nella loro straordinaria mancanza di dinamismo tecnologico.
19. Senza disprezzare, senza trascurare, senza sminuire il compito di rafforzare il Mercosur per affrontare la crisi e la riorganizzazione mondiale nel XXI secolo, gli Stati del Mercosur devono cercare di stringere delle relazioni con i paesi vicini del Sud America e cercare di far partecipare, in qualità di membri a pieno titolo al Mercosur, i paesi che si propongono, a cominciare dalla Bolivia, dall’Ecuador, e a seguire con la Guyana e il Suriname, tenendo conto, con serietà e realismo, delle loro necessità di sviluppo economico e industriale che il libero scambio, praticato dalle grandi potenze, non potrà mai portare.
(Traduzione dal portoghese di Luigi Paonessa)