Il miele del Salento leccese
di Antonio Bruno*
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Il miele: il dolcissimo trasparente dono delle api del Salento leccese che a Natale insieme alla farina, prima lavorata con il vino e con i liquori e poi fritta, fanno i “purceddrhuzzi” e le carteddrhate” , dolci del Salento leccese e consumati nei giorni delle feste natalizie. In questa nota la storia nel Salento leccese di questo liquido frutto del lavoro delle api e dell’uomo.
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Nel Salento leccese si produce il miele d'arancio, dal colore ambrato, e dal profumo intenso; il miele di timo, colore scuro, profumo penetrante, sapore forte (un potente antisettico utilizzato contro le malattie infettive, ma anche come digestivo); e poi il millefiori, chiamato così perchè si produce in primavera ed è ottenuto dall'insieme di tanti nettari e fiori, color paglierino, un sapore molto dolce (usato come dolcificante naturale), infine il miele d'eucalipto, colore scuro e sapore deciso, ideale per il trattamento delle infezioni, per la tosse, per le vie urinarie.
Già il miele! Il dolcissimo trasparente dono delle api del Salento leccese che a Natale insieme alla farina, prima lavorata con il vino e con i liquori e poi fritta, fanno i “purceddrhuzzi” e le carteddrhate” , dolci cari a tutti noi del Salento leccese e consumati nei giorni delle feste natalizie.
Il miele che in questo territorio sin dai tempi dei Messapi e a quei tempi proveniva dagli alveari in pietra leccese che sono ancora oggi sparsi in tutte le nostre campagne. E’ sempre il miele che ha dato il nome a Melendugno e a Melissano due cittadine del Salento leccese che nella seconda metà del seicento, Gerolamo Marcianò descriveva, riferendosi proprio a Melendugno: “Questa città è chiamata così per il miele che v' è prodotto e che è migliore di quello dell'Attica, di Iblea e del Monte Imetto. Era celebrato dai vecchi perché il paese abbonda di timo, rosmarino ed altre piante odorifere. Il suo emblema è rappresentato da un "Pinus selvaticus" che porta sul suo tronco un favo di miele.” Il Professor Raffaele Monaco della cattedra di Entomologia della facoltà di Agraria dell'Università di Bari ha riscontrato che nel territorio di Melendugno esistevano più di 90 apàri.
Apàro? Che cos’è? Si tratta di un tipo di “arnia villica”. In pratica è un blocco di pietra leccese che veniva scavata all’interno. Fatto ciò si chiudeva una delle estremità del blocco con una lastra di pietra leccese che era stata forata in più parti per permettere alle api di entrare e uscire liberamente. L’altra estremità era invece chiusa con una lastra di pietra leccese che aveva la funzione di tappo che si sigillava con calce miscelata con terra impedendo alle api ogni passaggio da quella via.
Quando nel Salento leccese si raccoglieva dall’”apàro” il miele, ovvero a Luglio, si avevano problemi per le punture da parte degli insetti e siccome si utilizzava per produrre il fumo che doveva far allontanare le api, un bastone con all’estremità del letame a cui si dava fuoco, il fumo rischiava di intossicare il povero apicoltore. I favi venivano messi nelle pentole e poi a casa si separava la parte del favo che conteneva il miele da quella che conteneva le covate che veniva chiamata “puddhu”, a qual punto le parti del favo contenente il miele veniva spremuta ed ecco il dolcissimo liquido a disposizione!
Nel territorio di Otranto c’era un apicoltura antichissima risalente ai primi del 1500 che utilizzava questa “tecnologia antica” fatta da P. Morroi.
Nel Salento leccese sino al 1800 c’erano zone meno fertili dove la macchia mediterranea imperava con tutti i fiori spontanei che la popolavano con abbondante disponibilità di polline per le api ed è in questo territorio che verso la metà dell’800 si impose una apicoltura moderna con arnie a favo mobile voluta da uomini che fecero dell’innovazione nell’apicoltura un vessillo e tra questi vi erano A. Castriota Scanderbergh di Galatina, Rocco e Nicola Pasanisi di Galatone, L. Colaci di Melendugno ed infine G. Balsamo e R. Bonerba di Lecce.
Tra il 1870 e il 1880 nel Salento leccese si sviluppa un grande dibattito sull’apicoltura ad opera di A. Castriota Scanderbergh che cominciò a divulgare la necessità di disporre di un numero maggiore di api regine allo scopo di aumentare il numero degli sciami e per questo motivo suggeriva di alloggiare le api nelle nuove arnie che disponevano di favi mobili.
Nel 1870 molti apicoltori del Salento leccese lamentarono la crisi della produzione di miele che era determinata da scarsa presenza di piante da polline. In quegli anni l’agricoltura del salento leccese si specializzò sulle coltivazioni di vite, olivo e tabacco che non si prestavano alla produzione del polline. Inoltre si conquistavano sempre più terreni alla coltivazione sottraendoli alla macchia mediterranea che divenne sempre meno presente nel territorio.
C’è da ricordare che in data 22 aprile 2010 è stato approvato il decreto del 4 dicembre 2009 del Ministero della Salute, recante “disposizioni per l’anagrafe apistica nazionale”, istituita di concerto con il Ministero delle Politiche agricole. Questo Decreto Ministeriale che ha istituito per il settore apistico l’anagrafe nazionale è uno strumento utile a cui gli allevatori del Salento leccese possono accedere per tracciare il miele di questo territorio che come abbiamo visto ha antichissime tradizioni. Il miele del salento leccese ha tutte le carte in regola per essere presente sulle tavole mondiali per portare la luce e i profumi di questa terra che si stende pigramente nel Mediterraneo nelle case di tutti.
*Dottore Agronomo
Bibliografia
Francesco Minonne - Francesco Vigneri: Il Salento e le api
Giulio Rosafio: Le arnie villiche - Apicoltura a Morciano di Leuca in Puglia
Francesco Pacella: “Miele salentino ora più sicuro”
A. Castriota Scanderbergh: La superiorità del metodo razionale dell’apicoltura, in confronto al vecchio sistema
Mario De Lucia - Franco Antonio Mastrolia: Società e risorse produttive in Terra d'Otranto durante il XIX secolo.