Era il lontano 1932 e lui era un quarantenne come mille altri, con una moglie di cui era pazzamente innamorato, Janice, con figli ormai grandi, con colleghi di lavoro che, nella maggior parte dei casi, erano diventati anche amici. Quello che non era normale era il lavoro che faceva Paul: insieme a Dean, Brutal, Harry e Percy sorvegliava i detenuti che attendevano di percorrere l'ultimo miglio della loro vita, quello che a Cold Mountain, a causa del colore del pavimento, era chiamato il miglio verde. Alla fine del miglio verde, ad attendere i condannati a morte, si ergeva terrificante Old sparky, la vecchia scintillante sedia elettrica. Era compito di Paul e della sua squadra anche la vera e propria esecuzione.
Nel 1932 le celle del blocco E erano occupate da due criminali detti Presidente e Capo, dopo la loro esecuzione inizia la vera e propria storia narrata da Paul. Tutto cominciò con l'arrivo al braccio della morte di Delacroix e John Coffey (sì, come il caffè, ma scritto diverso). Del era un ometto francese, assassino di molte persone, che però all'interno di quelle mura tirò fuori tutta la propria umanità, affezionandosi a uno strano topolino con gli occhi neri neri, capace, chissà come, di compiere curiosi giochi circensi. Quel topolino vagava già da un po' al blocco E, si intrufolava spesso nella cella vuota che poi avrebbe occupato Del, tanto da far credere ai carcerieri che, chissà come, quel topolino lo stava proprio aspettando. Delacroix lo chiamò affettuosamente Signor Jingles. Al suo arrivo ebbe un piccolo inconveniente con Percy, l'ultimo carceriere assunto, finito lì grazie alle sue alte conoscenze politiche. Un raccomandato invasato e fanatico, che non mostrava mai il minimo di tatto nel rapportarsi con i detenuti, non vedeva l'ora di picchiare qualcuno, di farlo soffrire, di insultarlo. Percy si prese subito male con Del.
Poco dopo Delacroix, giunse al blocco E John Coffey, accusato di aver stuprato e ucciso le due sorelline Deterrick. Non appena Paul lo vide rimase esterrefatto: John Coffey era l'uomo più grande che avesse mai visto. Un negro gigante accusato di aver commesso un crimine orribile, ma che a Paul non fece paura. Gli strinse addirittura la mano il giorno del suo arrivo, non era mai successo prima che si avvicinasse così tanto a un detenuto del blocco E. John Coffey era un omone con il cervello di un bambino. Aveva paura del buio e piangeva in continuazione. Paul lo guardava e non poteva capire come, un uomo all'apparenza così mansueto, potesse aver compiuto un'azione tanto brutta. Eppure era stato trovato con le mani nel sacco. Quando la polizia l'aveva arrestato lui era lungo le rive di un fiume, con in braccio le sorelline morte, sporche di sangue. Le teneva in braccio e piangeva, urlava. Voleva rimediare, ma era troppo tardi.
Presto arrivò anche un terzo detenuto al braccio E, un giovanotto molto pericoloso, uno che potenzialmente era ritenuto in grado di fare qualsiasi cosa, William Wharton, che amava paragonarsi a Billy the Kid.
Il 1932 fu l'anno in cui Paul rimase vittima di una dolorosissima infezione alle vie urinarie. Fu proprio questa sua malattia, e l'incredibile modo in cui ne uscì fuori, a fargli guardare con nuovi occhi il gigante nero del blocco E. Stava soffrendo da cani il giorno in cui John Coffey lo invitò ad entrare nella sua cella. Nessun carceriere sarebbe mai dovuto entrare da solo nella cella di un detenuto, meno che mai in quella di un detenuto grande e grosso come John, eppure Paul lo fece. Senza sapere forse nemmeno il perché si ritrovò seduto accanto a Coffey. Il gigante assassino posò le mani su Paul per alcuni istanti, poi dalla sua bocca iniziò a uscire uno strano sciame di qualcosa di nero che, nell'aria, diventava bianco fino a sparire. Insieme a quella strana roba era sparito anche il dolore di Paul, non sarebbe mai più tornato. Paul rimase sconvolto, John non piangeva e continuava a ripetergli: l'ho aiutata vero? L'ho aiutata capo. Non c'erano testimoni di quanto accaduto, tutti si accorsero semplicemente del fatto che l'infezione, chissà come, era svanita.
Poco tempo dopo John Coffey ebbe di nuovo modo di mostrare le proprie capacità paranormali. Quel giorno Percy si dimenticò come al solito di camminare al centro del corridoio, sbadatamente si spostò un po' troppo verso il lato della cella di Wharton, che non si lasciò sfuggire l'occasione e lo acchiappò al volo. Tra il dolore e l'umiliazione Percy se la fece addosso e Del, notandolo, lo prese in giro. Percy era ancora sconvolto quando il signor Jingles, per stare dietro ai suoi giochetti circensi, uscì fuori dalla cella di Delacroix. Fu un attimo e Percy lo schiacciò col piede. Del urlava, il topolino era immobile a terra, in mezzo a una chiazza di sangue e, dall'altro lato, John Coffey, dopo aver osservato la scena, disse a Paul di dargli il signor Jingles, finché era ancora in tempo. Fu un attimo e quel topolino moribondo, tra le mani del gigante nero, riprese vita. A parte Percy, tutti gli agenti stavolta furono testimoni del miracolo e di quella strana roba che usciva dalla bocca di John.
Paul Edgecombe non credeva che Coffey fosse davvero colpevole, stava mettendo insieme i pezzi, stava riordinando le idee. John era un uomo che dio aveva mandato sulla terra con una capacità di aiutare le persone incredibile. John poteva aiutare, poteva salvare vite. John non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, Paul era convinto del fatto che non avrebbe mai potuto violentare e uccidere due bambine.
Paul non si sbagliava, fu lo stesso John a fargli capire chi era il colpevole, fu lo stesso Coffey a usare i suoi poteri per punire i cattivi.
Tutti gli uomini del blocco E erano consapevoli del fatto che avrebbero mandato a morire sulla sedia elettrica un uomo innocente, ma non sapevano come aiutarlo, non potevano dimostrare la verità. Fu ancora una volta lui ad aiutare loro, dicendo che per lui era un sollievo porre fine a una vita così, vissuta in solitudine, con quella sua strana capacità di captare il dolore delle persone.
Quella di John Coffey fu l'ultima esecuzione cui partecipò Paul Edgecombe.
Ormai anziano, alla casa di riposo, ripercorre i passi che lo portarono a quell'ultimo miglio verde percorso insieme al suo ragazzone, che gli assicurò: non espoderai, capo. Aveva ragione. Mentre scrive le sue memorie, Paul Edgecombe ha ben 104 anni, non ha più avuto nessun malanno dopo che John Coffey gli ha posato le mani addosso. E non è l'unico ad essere stato fornito di un elisir di lunga vita dal gigante buono. In una baracca accanto al casolare vive ancora il signor Jingles, un po' acciaccato, ma felice. Sa ancora fare i giochi che gli aveva insegnato Delacroix, quello strano uomo francese, pluriomicida, che si innamorò di un topolino. Paul, ultracentenario, ripensa alla strana morte di Del, a quell'esecuzione per mano di Percy che non ebbe niente di umano. Ripensa alle urla che sentiva John nella stanza di Old Sparky. Ripensa a sua moglie morta in un incidente e pensa ad Elaine, a quanto la ami nonostante l'età.
Questo è l'unico libro che ho letto di Stephen King. Volevo leggerlo da tanto, ma l'ho letto solo ora. Non ho nemmeno mai visto il film che ne hanno tratto, ma lo farò presto, anche perché il libro mi ha davvero conquistata. Non posso dire che è una bella storia, perché di bello questa storia non ha niente, però davvero mi sono trovata in mezzo agli eventi con una voglia matta di sapere come si sarebbero evoluti.
Il miglio verde non nasce come un romanzo. Ho scoperto leggendo l'introduzione dell'autore che, come faceva Charles Dickens nell'Ottocento, anche Stephen King ha provato a scrivere una storia a puntate, costruita gradualmente. Né i lettori né l'autore dunque sapevano come sarebbe andata a finire: Stephen King ha, di volta in volta, improvvisato.
Per me il risultato è stato ottimo. A un tratto della lettura, quando era notte fonda e in casa c'era un silenzio tombale, stavo piangendo. Non metaforicamente: stavo piangendo lacrime vere. Piangevo per Paul, per John, per il signor Jingles, per uno Stato che si erge a emblema della democrazia e poi ha ancora la pena di morte. Mentre leggevo della strana esecuzione di Del, letteralmente fritto sulla sedia elettrica, mi sono sentita orgogliosa di vivere in uno Stato dove non c'è nessun miglio verde, dove non c'è nessuna sedia elettrica, dove nessuno viene pagato per porre fine alla vita di altri esseri umani. Leggendo Il miglio verde, pagina dopo pagina, esecuzione dopo esecuzione, mi sono resa conto che anche solo per non avere la pena di morte nel nostro ordinamento dobbiamo sentirci orgogliosi di essere italiani. Sì, siamo un paese disastrato, comico, economicamente problematico, politicamente instabile, MA non abbiamo la pena di morte. E questo io lo trovo giusto. Ho ancora il voltastomaco per la fine di Delacroix. Ancora quella sensazione che mi fa dire che qualunque reato abbia commesso una persona non la rende meritevole di essere uccisa in quel modo da uno Stato. Capisco la voglia di vendetta di chi è stato toccato personalmente da crimini in nessun modo giustificabili, ma non vorrei mai uno Stato che facesse della vendetta la sua bandiera. La giustizia, per come la vedo io, non passa per la pena di morte.
E se avessi avuto dei dubbi a riguardo (ma non li avevo) questo libro me li avrebbe certamente chiariti.