Il milione di licenziati e l’agonia d’Europa

Creato il 08 aprile 2013 da Albertocapece

Le ricette liberiste entrate nella cucina della politica italiana già con il craxismo e servite con sempre maggior frequenza accanto ai piatti del territorio con ingredienti a chilometro zero come’affarismo, familismo, cooptazione clientelare, solo per citarne alcuni, non hanno mai creato quel milione di posti di lavoro che ancora echeggia come slogan simbolo di una stagione marcescente. Ma in compenso, una volta applicate con rigore da uno chef  dei migliori ristoranti reazionari del continente, hanno prodotto nel solo 2012 più di un milione di licenziamenti a cui si devono aggiungere gli altri 900. 000 dell’anno precedente.

Tuttavia  questo è un effetto indesiderato soltanto per l’inattesa rapidità con cui si sta producendo la deindustrializzazione e l’impoverimento nella periferia dell’Europa e in maniera ancor più accentuata in Italia, perché rischia di creare una bomba sociale in grado di travolgere anche le cucine politiche del capitalismo. In realtà la disoccupazione “controllata” è un effetto voluto per aumentare il ricatto sul lavoro, disarticolare i sindacati e la capacità di resistenza, isolare le persone dentro una battaglia individuale e dunque far cadere salari e retribuzioni in vista di una fantomatica competitività. Su questo termine  fumoso, ci sarebbe molto da dire, ma in questo contesto ci si può limitare a notare che essa è ormai solo in rapporto con il profitto immediato, avendo perso i legami con innovazione, progetto, qualità, immagine che sono paradossalmente gli archetipi del mercato.

L’obiettivo finale non è diverso da quello di certe aziende in ristrutturazione, anche se ovviamente più complesso: licenziare per riassumere poi a un salario molto inferiore e con diritti ridotti al minimo. E se qualcuno avesse dei dubbi le recentissime vicende del Portogallo e della Grecia lo dimostrano in maniera inequivocabile. Ad Atene (come riferito qui) si sono precipitate alcune multinazionali a chiedere di poter assumere sotto i minimi salariali, già abbondantemente tagliati, prefigurando i 250 euro al mese, una proposta che ha messo in grave imbarazzo persino il destrissimo governo greco. Però questo tentativo privato è divenuta dottrina ufficiale della troika, dunque anche della Bce e di Bruxelles, che ha chiesto a Lisbona (altrove probabilmente per evitare spiacevoli quanto ovvi collegamenti)  di eliminare i i minimi retributivi. Una sorta di vendetta preventiva contro l’attesa sentenza della Corte costituzionale portoghese che venerdì scorso ha bocciato i massicci tagli ai salari voluti dal pensatoio dell’austerità.

E anzi oggi la commissione Ue fa la voce grossa, dicendo che il mancato “risparmio” di un miliardo e 300 milioni di euro dovuto alle decisioni della Corte, dovrà comunque essere recuperato con altri mezzi. Una cosa diventa sempre più chiara: chi si aspetta una qualche salvezza da questa Europa o è un illuso, oppure soffre di una pericolosa sindrome di Stoccolma: nessuno potrebbe aspettarsi un qualche reale sollievo da chi ha proprio il disastro del lavoro come obiettivo, anche se facendo male e ottusamente i calcoli ha sbagliato i tempi e rischia di trovarsi dinamite invece di rassegnazione. Del resto la Fondazione Friedrich Ebert, un centro studi vicino ai socialdemocratici tedeschi, dopo una serie di analisi e conferenze tenute in tutto il continente ha elaborato quattro possibili prospettive sul futuro dell’Europa e della sua moneta.

La prima è quello del “tirare a campare” senza cambiare nulla, accontentandosi di piccoli e inutili pacchetti di aiuto. Ciò porterà a maggiore disoccupazione e a sollevazioni nei Paesi della periferia, a una sempre maggiore immigrazione verso il centro, alla marginalizzazione dell’Europa nel contesto mondiale e infine alla dissoluzione dell’euro presumibilmente proprio per l’uscita dei paesi forti.

La seconda è quella di arrivare a una completa ‘unione fiscale con tutte le competenze trasferite a Bruxelles, una graduale integrazione politica fra Paesi e una redistribuzione di perdite e ricavi. Sarebbe l’ideale, anche perché darebbe all’Europa e alla sua moneta una dimensione realmente mondiale. Ma si tratta anche – avverte la Fondazione – di una ipotesi del tutto irrealistica poiché mancano tutti i presupposti per arrivare a un simile approdo. Viene dunque citata come qualcosa che ha la stessa probabilità del miracolo e la consistenza dei sogni.

La terza prospettiva riguarda invece la possibilità della formazione di un nucleo europeo forte deciso a portare avanti l’unione fiscale, escludendo gli altri e avendo la tentazione di imporre condizioni rispondenti ai propri interessi. Non esisterebbe più un ‘Europa propriamente detta, ma una zona di libero scambio con figli prediletti e figliastri sempre sull’orlo del disastro.

L’ultima ipotesi prevede la dissoluzione dell’area euro con i Paesi della periferia che tornano alle loro monete nazionali. Gli esiti di tutto questo deriverebbero dai modi e dai tempi con cui si arriverà a questo sbocco: potrebbe essere pacifico e razionale, ma non si può nemmeno escludere che si arrivi anche a uno stato di conflittualità.

Insomma escludendo la soluzione ideale che per aperta ammissione è di fatto irrealizzabile, almeno non nei tempi che sarebbero utili, tutte le altre ipotesi prevedono una profonda trasformazione senza escludere che essa possa avere risvolti drammatici. E di certo il comportamento cieco e aggressivo della Ue, il suo scomposto liberismo contro fattuale, la volontà quasi sadica di infliggere massacri sociali, mai contestati da governi che ha fortemente contribuito con l’illusionismo a insediare, non fanno presagire nulla di buono.

Mi chiedo  come  la politica che vediamo dispiegarsi in questi mesi in Italia possa essere all’altezza di queste sfide e delle relative scelte: tutto sembra orientato alla bassezza dei possibili esodi, con l’aggravante di averli messi sotto il tappeto.


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