10 anni fa vivevo a New York, Manhattan, sulla Upper East Side, a due blocchi da Central Park in un piccolo e carissimo appartamento vicino alla metropolitana. Mi ero appena trasferita e sposata dopo 5 anni di vita e lavoro in Israele. Un Israele della seconda intifada, violento, cupo, con gli attentatati.
New York, a me romana, mi era sembrata una salutare boccata di smog, e un sollievo dall’incubo del terrorismo. Finalmente, pensavo, potevo prendere gli autobus e metropolitana come una “idiota” senza guardarmi intorno. Al massimo guardarmi il portafoglio.
La prima cosa che si ricorda del 9/11 è che si ricorda tutto, veramente pazzesco, sono rimasta in contatto con una collega e scambiandoci degli email qualche giorno fa, sembravano scritti con la copia carbone di una volta. I minuti sono rimasti scolpiti nella mente di chiunque era a New York quel terribile giorno.
Il 9/11 ero nell’ufficio SPSS, il mio ufficio al sesto piano dell’Empire State Building.
Come tutte le mattine, si controllava la posta, quel giorno avevamo un corso di aggiornamento. Alle 9:00 vedo sul mio PC una breaking news, un piper ha colpito il World Trade Center. Guardo la foto e penso, che il fumo era troppo per essere un piper, e dopo 5 anni in Israele penso automaticamente ad un attentato, anche se non lo dico ai colleghi che infatti non erano minimamente preoccupati dalla notizia.
Erano molto più interessati alla colazione che l’ufficio offriva giornalmente ed infatti erano tutti in cucina, ero io l’unica che guardava le notizie.
Il tempo di raggiungerli e incominciare a bere quella brodaglia di caffè americano ed addentare un begel con lox, che alle 9:15 gli altoparlanti interni annunciano: This is the NYPD evacuate immidetially the building by elevator, repeat …..” Che vuol dire Questa è la NYPD evacuate immediatamente l’edificio tramite ascensori, ripeto ….”
A quel punto, il mio sospetto è diventato certezza, qui stava succedendo qualcosa e se ci volevano fuori immediatamente, come minimo poteva esserci un allarme bomba.
I miei colleghi americani, hanno reagito in modi diversi, fra lo stupore quasi tutti, qualcuno un muto panico, e soprattutto tutti lentissimi.
Io invece ho disobbedito, pensai che stando solo al sesto piano sopra i negozi, quindi più o meno come al decimo, non sarei mai stata in fila con i centinai di impiegati ad aspettare gli angusti, ebbene sì diciamolo, ascensori dell’Empire State Building. Se ci volevano immediatamente fuori, così avrei fatto. Ero sopravvissuta a Israele di certo non mi facevo incastrare a New York in un ascensore, pensai.
Tirai per la manica un giovane collega con la moglie incinta che doveva partorire nella settimana, lo convinsi e ci precipitammo, letteralmente nelle scale di emergenza. Aprimmo, meglio, sbattemmo in faccia ad un povero pompiere la porta antincendio, prendendoci una marea di insulti, ma io mi scusai in perfetto italiano, dicendo, scusi, non capisco!!
Uscimmo 20 minuti prima dei nostri colleghi che arrivarono, quasi tutti, pure senza borse allo Starbucks all’angolo.
Sulla strada c’era un numero impressionante di macchine dei servizi segreti che sfrecciavano verso le torri, ambulanze, pompieri.
Decisi, che il direttore dell’ufficio poteva tornare da solo a lavoro, secondo lui dovevamo aspettare che ci dicevano di tornare in ufficio.
Disobbedii per la seconda volta, con un gruppo di colleghi andammo da Macy’s, da lì si potevano vedere le torri, ambedue a quel punto, immagino verso le 9:45 erano colpite e completamente avvolte in un fumo densissimo e nero.
Io e Linda, una simpatica e tranquilla collega di Long Island decidemmo di non tornare in ufficio. Con un altro collega convincemmo un collega esagitato di Buffalo a non andare verso le Torri, voleva andare ad aiutare le persone ferite!, ma tornare in albergo.
Mentre ci incamminammo verso Time Square, ormai certi che fosse un attacco terroristico, mi ricordo ancora che fermai un poliziotto ispanico che sentendo il mio accento italiano lo scambio per ispanico e mi parlò in spagnolo e mi disse che ci stavano attaccando, che eravamo in guerra, il Pentagono, le torri e anche la Casa bianca. Per ore ci fu la voce che anche la Casa Bianca era stata colpita.
Sinceramente rimasi senza parole. Non ero neanche in panico. Continuai a camminare neanche due minuti, poi penso che tutta Manhattan urlò, mi girai automaticamente verso le Torri, saliva verso il cielo quello che posso descrivere come una nube simile in altezza ad un fungo atomico. La gente era scioccata, ma c’era anche qualche deficiente che correva dai negozi di elettronica con le videocamere per immortalare l’attimo. Una delle due torri era crollata.
Vidi un carro di pompieri fermo sulla 5th avenue con loro che piangevano seduti sul marciapiede. Non me lo scorderò mai un pompiere che sembrava un ragazzino, biondino, che singhiozzava seduto per terra. Per loro fortuna non erano arrivati in tempo alle Torri, ma probabilmente avranno sentito tutto con le loro radio.
La gente era, e in questo, solo In Israele ho visto tanta calma dopo gli attentati, calma, un calmo panico, e una totale incredulità.
La polizia incominciò ad evacuare tutti i grattacieli, milioni di persone si riversarono per strada. I taxi sparirono, neanche uno. Gli ultimi autobus imprendibili. Metropolitana chiusa.
La mia collega Linda venne con me a Time Square, mai vista così piena, credo che ci sarà stato un milione di persone, tutti a guardare i maxi schermi, le torri che crollavano, il pentagono in fiamme, non c’era ancora notizia dell’altro aereo, ma si diceva di forse altri aerei dirottati, forse uno diretto su New York.
La gente era muta, nessun urlo, grido di rabbia, qualcuno piangeva, ma pochi ne ho visti.
Decisi di allontanarmi al più presto dal business district, pensando che era proprio il posto sbagliato dove stare. Abitavo sulla E96 and Lexington avevo 60 blocchi verso east da fare con milioni di gente e un attacco terroristico spaventoso in corso, meglio andare via e veloce. Dopo anni in Israele era veramente allucinate che arrivata a New York mi trovavo in questo casino.
Non mi sentii di abbandonare Linda e camminai con lei fino a Penn Station.
Poi cercai disperatamente un telefono, i cellulari non funzionavano più. Vidi una lunga fila ad un telefono, capii che quello funzionava, ovviamente non avevo un quarter, datomi gentilmente da un elegantissimo stock broker.
Mio marito aveva lavorato tutta la notte come correttore di bozze. Quando finalmente arrivò il mio turno, era appena uscito dalla doccia, ed al mio probabilmente isterico, le torri sono cadute, non so come tornare a casa, giustamente, mi ha risposto, se fossi impazzita, non sapendo niente.
La polizia aveva chiuso Manhattan e chiedeva alla gente di andare direzione Nord. Per circa 30 blocchi ho camminato con un gruppo di brokers, uomini e qualche donna, che maledicevano le scarpe con il tacco….Uno per tirare su il morale di tutti ci fece ridere e disse, Nord fino ad un certo punto, mica mi voglio fare rapinare dopo tutto questo!! Guarda come sono vestito! Infatti era proprio elegante.
Ci fermammo sulla 60esima di fronte a Sack Fifth Avenue. Questo gruppo di persone, nessuno viveva a Manhattan, decise di fermarsi lì ed aspettare o alla peggio cercare un albergo, si era fuori dall’area del business district ritenuta più pericolosa. Io dopo aver bevuto qualcosa, ripreso fiato, e ripresami un attimo dallo shock, molti parlavano di una nuova Pearl Harbor, che dopo di questa gli USA sarebbero andati in guerra, e che gli avrebbero spediti all’età della pietra, questi i commenti più comuni delle persone con cui ho camminato, ho ricominciato il mio cammino.
Nel frattempo la mia più cara amica Roberta, che studiava alla Columbia sulla 110 and West, ma abitava a Queens, si diresse a piedi verso casa mia, non potendo tornare a casa.
Io ci misi un’altra ora e trovai mio marito sulle scale del nostro palazzo ad aspettarmi.
Riuscii a chiamare Roberta, che ancora per strada mi disse che prima o poi arrivava. Nel supermercato vicino casa, la gente invece dimostrò il lato irrazionale, fece incetta di pane, latte, acqua e simili. Mio marito che è del Midwest, diceva, mica è un tornado è un attacco terroristico.
Andammo al nostro ospedale di quartiere, Il Lexington Hospital, avevano lettighe e dottori pronti anche sulla strada, ma non arrivava e non arrivò nessuno. Ci dissero che di donazioni di sangue non ne avevano bisogno.
I jet militari volavano su New York.
La sensazione era irreale, si capiva che probabilmente di sopravvissuti non ce ne sarebbero stati molti, forse nessuno. Tutti si aspettava che Giuliani parlasse la sera.
Incontrammo una amica carissima di mio marito, era assolutamente isterica. Ci disse che lei era stata su uno degli ultimi treni della metropolitana che si sono fermati al World Trade Center, la sua fermata per andare a lavoro. Ci disse che quando uscì dalla metropolitana la prima torre era già stata colpita e vide la gente gettarsi dalle finestre. Lei corse dentro la metropolitana, e in lacrime lo disse agli altri passeggeri, che incredibilmente non le credettero che c’erano persone che si gettavano dalle torri. Era completamente devastata. Non sapevamo cosa dire, letteralmente.
Giuliani parlò, non c’erano sopravvissuti. Bush divenne il Presidente di tutti, che guidò una nazione in ginocchio ad una guerra senza fine contro nemici che non rispettano nessun codice e regola.
La sera, anche dove abitavamo incominciarono a vedersi i tristemente famosi volantini con le foto delle vittime, che tappezzarono New York per settimane. Vedemmo anche la famiglia di un manager, credo della Cantor Fitzgerald, che di fronte alla loro elegante casa di Central Park accendevano le candele di Shabbat vicino al volantino di missing del padre. Purtroppo era nel piano dell’impatto e non tornò.
Il giorno dopo, a Manhattan il vento cambiò, l’odore era insopportabile, un odore mai sentito prima, un odore di morte e che spero di non sentire mai più.
Nei giorni seguenti, la vita ricominciò, i funerali, i volantini di missing, che piano piano diventavano sempre più sbiadati, le evacuazioni quotidiane del mio ufficio, ormai andavamo a lavoro con le scarpe da ginnastica. Un collega anziano si rifiutò di farle, disse che preferiva morire alla scrivania che di infarto. Un’altra collega si ruppe la caviglia, spinta da un energumeno che la schiacciò sulle scale.
La metropolitana, idem. Insomma, lasciai Israele nel bel mezzo della seconda intifada e mi ritrovai New York nel post 9/11.
La nota più assurda che all’Empire State Building misero un metal detector come all’aeroporto, dove era assolutamente vietato il taglierino. Allora in un edificio di uffici, dove si aprono pacchi, lettere e simili, il taglierino serve no?, Mica si può dirottare un ufficio, no?
La segretaria, ci aveva avvertito, se gli toccavamo il taglierino, acquistato pre 9/11 ci faceva aprire i pacchi con i denti…..
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