il mio grande maestro

Creato il 10 ottobre 2011 da Frufru @frufru_90



Quando scorro la rubrica del mio cellulare mi accorgo che ho perso di vista tante persone, anche qualcuna che non avrei voluto perdere. Il mio Grande Maestro, ad esempio. Si, avevo il numero di telefono del mio prof di matematica, però non l'ho mai usato. Me l'ha dato un pomeriggio nebbioso, mentre mi diceva di essere meno timida, meno modesta, più arrivista (si dice così?). Quando penso a lui, lo so che è stupido, mi viene da piangere. Lui è, in assoluto, la persona più bella che io abbia mai incontrato. Le sue parole me le scrivevo nel mio diario di carta, per rileggerle poi un giorno. Di parole ne diceva tante, era una fabbrica di bellissime parole. L'avrei ascoltato ininterrottamente per ore e ore e ore. Non diceva mai cose scontate, o banali. Non diceva niente di quello che dicevano anche gli altri. Mi ha fatto innamorare della matematica, mi ha regalato un mondo di certezze, un mondo perfetto, nella sua astrazione, un mondo di dimostrazioni e perché, di spiegazioni chiare e logiche. Avevo bisogno di tutto questo. Lui diceva che avevo una mente matematica, mi coccolava, mi portava libri, mi raccontava film, a volte mi fermava a ricreazione e stavamo a chiacchierare per tutto il quarto d'ora. Io ci avrei passato tutte le sei ore insieme a lui, preferivo fare matematica che educazione fisica. Avevo l'impressione che fosse una materia meritocratica, perché per prendere un bel voto o anche solo un 6 serviva più di un pomeriggio di studio. Avevo 9 fisso a matematica, anche qualcosa in più a volte. Succedeva che consegnavo compiti perfetti e lui, il mio prof, con la penna rossa scriveva un “10” che mi faceva sentire bene, però poi aveva paura del messaggio, non voleva che passasse un messaggio di perfezione, perché perfetta non ero. Troppo timida, troppo riservata, un po' asociale, un po' strana. Mi riempiva di domande senza ricevere mai una netta, vera, risposta Che cosa avrei dovuto dirgli? Che un giorno, ascoltando una canzone di Tricarico, avevo deciso di voler imparare da lui quello che mio padre non mi sembrava sapesse insegnarmi? Avrei dovuto dirgli che non era nel mio modo di fare alzare la mano continuamente, che anche se le risposte le sapevo non mi andava di dirle sempre? Avrei dovuto dirgli che per me era diventato una specie di secondo papà che mi capiva più di quello vero? No, non avrei dovuto dirglielo, infatti ho tenuto tutto per me. Che cosa avrei dovuto dirgli quando mi vedeva giù? Avrei dovuto raccontargli la mia vita fuori dalla scuola?Avrei dovuto parlargli dei medici, delle diagnosi, delle incertezze che regnavano a casa mia? Non volevo dirgli niente di tutto questo. Niente. Sono restata in silenzio mille volte davanti a lui e so benissimo che quel silenzio lui non lo meritava. Mi faceva un po' paura il suo modo di approcciarsi, il suo capire immediatamente dove fosse il problema, il suo modo di aiutarmi. Mi sentivo “nuda” davanti a lui, come se sapesse carpire anche quello che non avevo ancora capito nemmeno io. Era un insegnante fantastico. Uno di quelli che rendono la scuola un po' migliore, uno di quelli che dentro ti lasciano tante, tantissime cose, uno di quelli che dai ricordi non se ne andrà mai. Tra tutte le cose che avrei dovuto dirgli credo che la più importante sia questa: un semplice “grazie”. Immagino che lui sorriderebbe, mi abbraccerebbe, mi direbbe che ha provato a fare solo il suo lavoro. Ero attaccata a lui, forse troppo, talmente tanto che poi quando il suo trasferimento è stato accettato ho anche pianto, insieme ad altri di classe mia. Ho pianto per un professore. Cavolo, ero messa male.
Qualche mese fa l'ho incontrato per strada, non ci vedevamo da due anni. Siamo stati un'ora a parlare mentre la gente passava. Più che altro parlava lui, io mi sentivo un po' in imbarazzo. Diceva che voleva delle spiegazioni da me, dei motivi validi per cui non ero all'università, diceva che gli dispiaceva un sacco, che avrebbe voluto aiutarmi, che la scuola non funziona più se una come me smette. Perché? Perché? Perché? Mi martellava di perché che voleva ascoltare da me, dalla mia voce, non da quelle degli altri, ma a me la voce non usciva. È che davanti a lui mi sembrano così fragili le mie motivazioni, ha il potere di farle cadere a pezzi le mie fragilità. Lui mi chiedeva e io sarei voluta scappare o sotterrarmi o avrei voluto semplicemente piangere. Mi ha dato il numero di telefono, che mi aveva già dato in passato, mi ha detto di chiamarlo, di andarlo a trovare per parlare. Parlare. Non sono capace a parlare. Magari potrei scrivergli che mi dispiace aver cacciato dalla mia vita una delle poche persone che sapevano capirmi come io avrei voluto essere capita. A volte vorrei avere il coraggio per bussare alla sua porta, per sorridergli, per raccontargli della me che gli ho sempre tenuto nascosta, nonostante lui avesse voluto conoscermi. Un giorno busserò alla sua porta, magari gli porterò un dolce, gli dirò che faccio la pasticcera (vado di fantasia ovvio...), che mi piace, che mi sento meglio, più forte, più grande. Gli dirò che non deve pensare di aver sbagliato qualcosa, perché non ha sbagliato, anzi, mi ha solo insegnato a pensare con la mia testa e il fatto che poi con la mia testa ho deciso di non studiare più matematica deve quasi farlo sentire orgoglioso. Questa forse è una cavolata che è meglio non dirgli. Potrei dirgli che mi dispiace che insegna più poco perché si dedica alla ricerca, senza di lui la scuola diventerà peggiore di quello che è. È sottinteso che comprerò il suo libro quando uscirà ed è scontato che lo leggerò, che mi farò prendere un po' dalla nostalgia. Voglio la dedica però. In realtà mi vergogno di bussare alla sua porta, altrimenti l'avrei già fatto da tempo.

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