Il mio nome nel tuo nome. Nicola Ponzio

Creato il 09 marzo 2015 da Vivianascarinci

Nella camera precedente c’era Stefania Crozzoletti

www.oedipus.it/ (marzo 2014)

In questa terza camera, il racconto riguarda una poesia lunga tutto un libro. La prima evidenza che segna questo libro di Nicola Ponzio è quella del continuo dibattersi di ogni cosa cui l’organizzazione in una trama fa fronte dando una misura contraria che restituisce al lettore il senso e la possibilità di un’intenzione conoscitiva ferma e scrupolosa. La seconda evidenza nasce dal presupposto su cui si fonda la narrazione, quello di ri-processare il disfacimento delle cose entro l’ipotesi di un tempo ritrovato, il tempo di un a priori della nominazione che le salvi dal degrado umiliante di lasciarle in balia del primo nome conosciuto. Il doppio registro sulla base del quale si avverano queste due evidenze è filosofico e narrativo, lo strumento linguistico che rende possibile questo salvataggio in extremis è la poesia.

Il plot riguarda un dialogo tra due entità che si alternano. Possiamo distinguere i due pulpiti principalmente perché il discorso di una delle due entità è riportato in corsivo e quello dell’altra no. Inoltre sappiamo che la scrittura in corsivo proviene dal corpo di una donna che è morta. Siamo avvisati di questa eventualità dalla descrizione di particolari anatomici che ci vengono riferiti da entrambi, nell’ambito dei fenomeni legati alla decomposizione di un corpo femminile. Così quel corpo si delinea sia secondo la descrizione di un altro, sia attraverso il racconto che la protagonista fa del proprio disfacimento, a partire dall’ottica di un’equanime percezione di sé. Anche l’ambientazione ha un’importanza estrema ai fini del racconto, tutto ciò infatti avviene in un contesto in cui la natura selvaggia e il degrado ambientale partecipano nella stessa misura. Quindi attraverso questa location, ciò che si dipana è l’osservazione incrociata di un processo che partendo dalla perdita di vita della materia umana, la restituisce a un’invisibilità, che vista da una prospettiva salvifica, può anche somigliare, ma non è detto, a un grado di esistenza superiore. Cosa che Nicola Ponzio attraverso questo libro dimostra possibile, almeno linguisticamente. Un altro dato certo relativo a tale indagine è che, di questo corpo senza vita, non importa l’identità, né che venga rinvenuto da terzi, tanto meno che sia rinsaldato a terra da una sepoltura.

Sono cinque le stazioni che compongono questa ricognizioni a due voci:

1. Anamorfosi (p.7)
Nell’incipit il corsivo femminile si autodenuncia nella sua funzione iniziatica. E di fatti quello che segue è la descrizione fenomenica di un’iniziazione. Qualcuno vuole iniziarci all’invisibile. Ma che cos’è precisamente che inizia a disfacimento avvenuto, ossia quando ci si immagina che non sia rimasto più nulla? iniziavano i nomi, i fenomeni/e le sembianze, – l’invisibile etc. (p.9) L’anamorfosi nelle arti figurative è un cambiamento prospettico del guardare mediante il quale accade che le cose spariscono dal raggio visivo dell’osservatore pur restando nella medesima posizione. In zoologia indica uno sviluppo senza metamorfosi, proprio di alcuni artropodi. Il vedere concerne un discorso prospettico e un discorso temporale. Il vedere dipende cioè da dove ci si trova mentre guardiamo e dal momento preciso in cui si rivolge lo sguardo all’oggetto. Oggetto umano esanime, nel nostro caso, che ha una sua mutevolezza (un suo sviluppo senza metamorfosi) rispetto i presupposti che regolano l’osservazione. Uno sviluppo che con ciò non esaurisce la sua funzione, anzi assume una funzione poetica proprio cessando la sua umanità. O meglio quanto di nominabile concerne la sua umanità. Si entra per di qui nella nomina di una pluralità di sembianze che è un vero e proprio tripudio.

2. Imago picta (p.27)
“cosa sono le rose.” (p.42) Non è una domanda. “dove sono le rose.” (p.42) E’ il corsivo femminile poi a indicare la dispersione ossea, la sua dentatura entro l’ara votiva di un cespuglio di rose canine (p.54). Così apprendiamo che è proprio questo rito iniziatico che ci viene raccontato, a necessitare il sacrificio di un corpo umano femminile. E tutto ciò è finalizzato a aprire un varco. Il rito forza una chiusa e riesce ad aprire a quel corpo una protezione (p.53) del tutto nuova data dalla neutralità dello spazio.

3. Dell’acqua (p.55)
L’acqua è sodale al rito. Il rito trova nella transitorietà che l’acqua del fiume rappresenta, un tracciato con caratteristiche affini sia per quello che riguarda la definizione della propria “erranza” (p.57) che altre qualità a esso necessarie, ai fini di un’emersione ossimorica. Un’emersione che ha luogo offrendo una pluralità di sembianze all’oscurità. Un’emersione che diventa un lento risalire l’invisibile cui una lingua ulteriore si costituisce come rimedio poiché “non vale la pena di mantenere/ distinzioni tra un nome e l’altro./ il mutamento è la condizione/ necessaria alla persistenza,/”(p.61)

4. L’urna e la luna (p.73)
“i rilievi dell’argine,/ intorno alla casa”(p.75) segnano ciò che è fuori, cioè lei, che ormai non ha alcun timore della notte perché la sua erranza e la sua dissoluzione sono le condizioni che fondano il visibile come se tutte le qualità acquisite da questo corpo femminile in virtù del rito che il libro di Ponzio compie, trovassero una loro esistenza occulta entro le forme lunari

5. Agnizioni (p.83)
Infine si intenta la chimera dell’”unità”(p.85)/interezza. Ma per capire meglio come, si deve tornare all’esergo del libro: Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è (…)(p.5) Ponzio indica che alla nostra fede in relazione a ciò, si debba accordare un percorso improvvisativo cui però possono dar prova di infallibilità soltanto i segni di fuori, quelli che la neutralità dello spazio assicurato al corpo di lei, elargisce. Così certi voli o certi ritrovamenti imprevisti non sono che “il legame/ che svela gli abbrivi, le soglie,/” (p.87). E sulla base di questo principio “pure il testo si evolve”(p.87), al punto di porsi in modo efficacemente contrastivo alla marginalità soltanto apparente dei luoghi, perché fa fede una misura esatta rintracciabile molto oltre quelli

Alla fine del libro, non ci importa più se il voyeur come lo chiama Giampiero Marano nelle postfazione del libro (ossia la voce che non è quella del corpo ormai sparito), sia di un assassino che perciò abbia i suoi buoni motivi per non denunciare al mondo di qua, il rinvenimento di un cadavere. Né se quel corpo femminile stia a significare metaforicamente la lingua madre, il degrado che la minaccia o quello del luogo in cui questo impoverimento semantico sta avvenendo. Già il corpo è felicemente sparito lasciando dietro sé la scia di una ricognizione posta al riparo. Al riparo da tutto quanto altrimenti sopraggiungerebbe a distogliere l’invisibile dal tripudio di (r)esistere sulla base di una propria impersonale necessità. Anche se sottoforma e in una scansione del tempo tutt’altro rispetto a quello cui ormai siamo abituati.


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