Morti sul lavoro. Già.Le chiamo così, anche se qualcuno potrebbe non essere d’accordo. Nessuno di loro sarà pianto in cerimonie ufficiali, ma in funerali nascosti. Per nessuno di loro ci sarà un’alzata di scudi, appelli alla sicurezza, inchieste penali, ispettori di questo o quell’Ente che scaveranno alla ricerca di responsabilità forse, in questi, casi fin troppo evidenti. Sto parlando degli imprenditori suicidi. Gente che magari, dopo decenni di lavoro ha scelto di “mettersi in proprio”, facendo una scelta difficile, coraggiosa. Gente che ha coinvolto le famiglie in progetti d’impresa che fino a qualche tempo fa parevano funzionare a dovere che potevano regalare la soddisfazione non di “fare” un lavoro semplicemente, ma di “creare” lavoro, occupazione, ricchezza. Gente che, però, ad un certo punto decide di farla finita. Non mi chiedete di giudicare. Già riflettere su questo è difficile, decidere quasi impossibile. Non sono uno dei maniaci dei “distinguo” o di quelli che “bisogna vedere caso per caso”. Credo, invece, che tutti questi atti tragici hanno un comune denominatore evidente: la disperazione. La disperazione di essere lasciati soli di fronte a banche sempre più esose e super-protette (il governo Monti ci ha fatto questo ennesimo regalo) ad un sistema esattoriale in grado di piegare qualsiasi resistenza, lasciando senza tregua e senza speranza. La disperazione accresciuta dalla impotenza di poter affrontare un domani con il fiato addosso del funzionario di banca o del trillo del telefono o dell’ufficiale giudiziario con l’ennesima notifica di un decreto ingiuntivo o di un pignoramento. Quando non c’è di peggio. E mi riferisco, senza metafore, all’usura degli sciacalli senza scrupoli. Non possono essere giustificate, ma debbono essere capite. Queste morti non possono essere semplicemente affidate ad un pietismo di circostanza.Fanno male. E fanno male a tutta la società. E’ gente che dopo essere stata spogliata di tutto, del patrimonio, degli affetti (sì proprio quelli), degli amici, del lavoro, della dignità personale, rinuncia pure all’unico bene che in qualche modo sente di appartenere loro: la vita. Forse nella paura che arrivino prima gli “altri” a rubarla.Per loro nessuno sciopero, nessuna indignazione, nessun telefono amico, nessuna manovra finanziaria. Solo un colpo di pistola. Un boato accecante nella notte buia che era diventata la loro esistenza. E poi, chissà…M.
Morti sul lavoro. Già.Le chiamo così, anche se qualcuno potrebbe non essere d’accordo. Nessuno di loro sarà pianto in cerimonie ufficiali, ma in funerali nascosti. Per nessuno di loro ci sarà un’alzata di scudi, appelli alla sicurezza, inchieste penali, ispettori di questo o quell’Ente che scaveranno alla ricerca di responsabilità forse, in questi, casi fin troppo evidenti. Sto parlando degli imprenditori suicidi. Gente che magari, dopo decenni di lavoro ha scelto di “mettersi in proprio”, facendo una scelta difficile, coraggiosa. Gente che ha coinvolto le famiglie in progetti d’impresa che fino a qualche tempo fa parevano funzionare a dovere che potevano regalare la soddisfazione non di “fare” un lavoro semplicemente, ma di “creare” lavoro, occupazione, ricchezza. Gente che, però, ad un certo punto decide di farla finita. Non mi chiedete di giudicare. Già riflettere su questo è difficile, decidere quasi impossibile. Non sono uno dei maniaci dei “distinguo” o di quelli che “bisogna vedere caso per caso”. Credo, invece, che tutti questi atti tragici hanno un comune denominatore evidente: la disperazione. La disperazione di essere lasciati soli di fronte a banche sempre più esose e super-protette (il governo Monti ci ha fatto questo ennesimo regalo) ad un sistema esattoriale in grado di piegare qualsiasi resistenza, lasciando senza tregua e senza speranza. La disperazione accresciuta dalla impotenza di poter affrontare un domani con il fiato addosso del funzionario di banca o del trillo del telefono o dell’ufficiale giudiziario con l’ennesima notifica di un decreto ingiuntivo o di un pignoramento. Quando non c’è di peggio. E mi riferisco, senza metafore, all’usura degli sciacalli senza scrupoli. Non possono essere giustificate, ma debbono essere capite. Queste morti non possono essere semplicemente affidate ad un pietismo di circostanza.Fanno male. E fanno male a tutta la società. E’ gente che dopo essere stata spogliata di tutto, del patrimonio, degli affetti (sì proprio quelli), degli amici, del lavoro, della dignità personale, rinuncia pure all’unico bene che in qualche modo sente di appartenere loro: la vita. Forse nella paura che arrivino prima gli “altri” a rubarla.Per loro nessuno sciopero, nessuna indignazione, nessun telefono amico, nessuna manovra finanziaria. Solo un colpo di pistola. Un boato accecante nella notte buia che era diventata la loro esistenza. E poi, chissà…M.
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