Il mito della caverna:"La percezione della realtà"

Creato il 06 giugno 2014 da Lucia Savoia
"Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia l'ingresso aperto verso la luce estendentesi in tutta la sua ampiezza per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover stare fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a causa di catene e che, dietro di loro e più lontano arda una luce di fuoco. Infine, immagina che tra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo lungo la quale sia costruito un muricciolo, come quello a cortina che i giocatori pongono fra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini".
Queste sono le parole usate da Platone nel VII libro della "Repubblica" che, introducono il famoso "mito della caverna".
Dall'apertura del racconto si coglie una clausura fisica dell'uomo che, in catene, non può volgere lo sguardo altrove, e crescendo in tale stato non conosce altra realtà. I prigionieri, infatti, costretti in catene, potranno solo osservare "statue di viventi fabbricate in legno e in pietra". Le statue, grazie ai loro portatori, danno ai prigionieri l'illusione che queste parlino, portando alla loro mente in maniera sempre più forte e concreta che sia quella la realtà. Platone spiega che questi uomini sono simili a noi, in questo senso, egli intende far fronte al problema dell'uomo vittima delle apparenze e dell'incapacità di volgere il suo sguardo verso l'alto. Infatti, ipotizzando che uno di questi venga liberato, costretto ad abbandonare la caverna, proverà dolore (avendo sempre vissuto al buio) nel guardare la luce naturale del sole e ritornerà nella stessa perché "riterrebbe le cose che vedeva prima più vere di quelle che gli si mostrano ora".Se, invece, si sforzasse di guardare la luce non gli farebbero più male gli occhi, quindi non fuggirebbe voltandosi indietro e riterrebbe più chiare le cose che vedrebbe ora. Platone prosegue spiegando che, se questi venisse trascinato lungo una salita e costretto a guardare la luce del sole, proverebbe una forte irritazione e con gli occhi pieni di bagliore non sarebbe più capace di vedere le cose che aveva ammirato. Esiste però una soluzione anche a questo problema: l'abitudine.Grazie ad essa l'uomo potrà vedere la luce del sole senza irritazione, e man mano riuscire facilmente a distinguere le ombre,gli oggetti e "tutte le realtà che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della Luna, invece di giorno il Sole e la sua luce".
L'uomo liberato dalla caverna, una volta conosciuta la realtà, averla contemplata e averne tratto conclusioni: è il filosofo;mentre l'uomo che, spaventato dall'esterno della caverna, per sua opinione davanti l'ignoto, torna indietro: è l'uomo comune.
L'esposizione del mito intende chiarire proprio questo,le differenze che ci sono tra gli uomini e il filosofo, quest'ultimo, secondo Platone deve ritornare nella caverna e convincere tutti che la realtà è fuori, bella e devono assolutamente conoscerla così come ha fatto lui. Non a caso il filosofo greco inserisce la figura del Sole, donandogli un ruolo fondamentale, infatti l'uomo diventa filosofo solo dopo aver visto la sua luce, e da questo arriva alle conclusioni che tutto sulla terra (come le stagioni) è dovuto ad esso. Nella cultura greca antica, il sole è sempre stato il simbolo della conoscenza, e in questo mito diventa la rappresentazione dell'Idea del bene, propria solo ai filosofi.
Articolo di Dante CianiArticolo originale di Sentieri letterari. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore. I contenuti sono distribuiti sotto licenza Creative Commons.

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