Il mito della tolleranza riformata

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Sono state, come accade sovente, le considerazioni di un lettore affezionato e caustico, dalla prosa elegante ed accattivante, a suscitare le considerazioni che seguono. Lo stimato Midiriai, infatti, in un suo sagace commento al mio ultimo articolo, ha rimarcato la tendenza del cattolicesimo romano a giustificare gli efferati crimini di cui la sua storia è intrisa attraverso il paravento della cosiddetta contestualizzazione: in buona sostanza, la tesi sostenuta dagli apologeti cristiani è quella secondo cui, all’epoca in cui tali nefandezze vennero perpetrate, la cultura del tempo (se così la si può chiamare) prevedeva immancabilmente la condanna del reo. Chiariamo immediatamente che la colpa di cui l’impenitente si macchiava dinanzi all’autorità ecclesiastica consisteva per lo più nella libertà di dissentire (e dunque di riflettere) in ambito teologico.

Considerato, però, che criticare in tal senso l’inquisizione cattolica è un po’ come sparare sulla croce rossa, vorrei soffermarmi sull’espressione dell’intolleranza del teologo riformato Giovanni Calvino, per mettere in evidenza come la restrizione al libero pensiero e la sua repressione ebbero luogo anche in seno ad una parte di quella Riforma sovente dipinta come liberale e progressista. Due sono le vicende emblematiche a tale proposito: quella del contestatore par excellence del dogmatismo ed autore del De trinitatis erroribus («Circa gli errori della trinità»), Michele Serveto; e quella dell’umanista Sebastiano Castellione, che condannò il rogo del medico spagnolo e, nello sconfortante panorama dell’intolleranza cristiana a lui coeva, cattolica come protestante, levò la sua protesta solitaria redigendo il suo capolavoro: De haereticis: an sint persequendi («Circa gli eretici: se essi vadano perseguitati», dove la sua risposta, naturalmente, è un no reciso e finemente argomentato). Prendendo le mosse da tali significative ed incresciose vicende, vorrei svolgere tre brevi considerazioni. 

  1. Fermo restando il fatto, incontrovertibile, che la condanna a morte di Serveto fu comminata dall’autorità civile ginevrina, bisogna rimarcare il fatto che Calvino espresse il suo sostanziale accordo circa l’opportunità di perseguire civilmente gli eretici, nel cui novero, naturalmente, Serveto figurava a pieno titolo. La questione da mettere in risalto, a tale riguardo, concerne il fatto che per un’accusa afferente al dissenso teologico Serveto fu condannato da un tribunale civile: e tale prassi, sia pure con conseguenze più lievi per ciò che attiene alle pene comminate, proseguì anche dopo l’implementazione delle riforme volute da Calvino nella chiesa ginevrina. La separazione tra Stato e chiesa, che non di rado viene attribuita alla Riforma tout-court, in verità non possiamo ascriverla né a Lutero, né a Calvino, dacché entrambi (come illustra perfettamente il mirabile romanzo storico “Q”, scritto dal collettivo che si firmò con lo pseudonimo Luther Blisset) finirono semplicemente per sancire un nuovo connubio tra autorità civile e giurisdizione ecclesiastica, nel quale le zone di intersezione furono molteplici e non del tutto scevre di ambiguità.
  1. Sono dell’avviso che definire Calvino «figlio del suo tempo», come alcuni si ostinano a fare ancora oggi nell’apologetica protestante, sia senz’altro corretto ma che si tratti, al contempo, di un’affermazione che necessita di un giusto contrappeso: anche Sebastiano Castellione, infatti, fu figlio del suo tempo e, ciononostante, scrisse in difesa del diritto d’opinione in ambito religioso negli stessi anni in cui Calvino lanciava i suoi strali contro il dissenso teologico in seno alla cristianità, anche riformata. Castellione, il suo «umanesimo cristiano» ed il suo spirito tollerante costituiscono anch’essi, a pieno titolo, l’eredità di quella Riforma che seppe promuovere la libertà di coscienza, esprimendosi con toni irenici ed evitando le note aspre e intransigenti della condanna. Purtroppo, si tratta di una Riforma che, politicamente ed istituzionalmente, non si affermò.
  1. La questione fondamentale, a mio giudizio, rimane quella relativa a quale sia lo spazio disponibile per ospitare un dissenso motivato e costruttivo in seno alle distinte realtà ecclesiastiche. Il pluralismo delle sensibilità teologiche, difatti, è un tesoro da salvaguardare e non una pericolosa deriva alla quale porre un argine: dal confronto pacato tra orientamenti distinti ma non per questo inconciliabili può prendere forma un cristianesimo che si riveli aperto alle sfide e agli stimoli che le provengono da quella che il sociologo Zygmunt Bauman ha felicemente battezzato «modernità liquida», refrattaria ad ogni rigidità che intenda contenerne forzatamente la fluidità di pensiero. L’univocità piena e indefettibile, anche in ambito teologico, non è auspicabile né realistica e rischia di mettere a repentaglio la libertà di ricerca così come le novità che possono scaturirne e che permettono, a chi intende percorrere la difficile via di una «fede pensante», di riscoprirla e ridefinirla giorno per giorno in rapporto a quel mondo che ci interpella e ci trasforma.

Alessandro Esposito – pastore valdese - da 'Micromega on line' del 24 sett 2013

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