Il “modello inglese” di prevenzione della violenza nel calcio? Non è importabile in Italia

Creato il 10 maggio 2014 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

Con riferimento ai gravi fatti accaduti in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio scorso, da più parti, è stato ed è, quasi ossessivamente, invocata l’introduzione e l’applicazione del così detto “Modello Inglese”, allo scopo di prevenire e reprimere fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive e, in specie, in occasione di partite di calcio.

Tale invocazione non è, peraltro, nuova, essendosi, puntualmente e ciclicamente, verificata, ogni qualvolta, soprattutto in ambito calcistico, si sono registrati i fenomeni di cui sopra.

Come, purtroppo invano, mi sono sforzato di spiegare in precedenti circostanze, chi invoca l’introduzione e l’applicazione del suddetto modello ignora o finge di ignorare le profonde differenze ordinamentali che storicamente esistono tra il nostro Paese ed il Regno Unito.

L’ordinamento italiano è definito di civil law: vale a dire contraddistinto da regole scritte di rango costituzionale e ordinario, in cui al giudice è riservata solo la funzione di applicare tali regole.

L’ordinamento del Regno Unito è definito di common law: vale a dire basato principalmente su decisioni giurisprudenziali e su principi desunti dalla consuetudine, dalla prassi e dagli usi.

In esso non vi è, pertanto, un complesso di norme organicamente codificate ed i principi costituzionali sono rinvenibili in atti eterogenei assunti dai pubblici poteri.

In questo tipo di ordinamento è, quindi, essenziale e prevalente la funzione giurisprudenziale, sicchè, al fine di assicurare una uniformità applicativa del diritto, vige il principio dell’adeguamento del giudice inferiore alla decisione di quello superiore.

Da questa fondamentale diversità scaturisce una ben maggiore flessibilità, duttilità e adattabilità alle circostanze concrete del secondo ordinamento rispetto al primo, anche se quest’ultimo è più garantista, almeno in astratto, del principio di legalità, in quanto il diritto non è creato dal giudice con la decisione del caso concreto, bensì è creato dalla legge che il giudice, pur conservando un certo ambito di apprezzamento, è tenuto ad applicare.

Da questa, sia pur sommariamente e sinteticamente delineata, profonda diversità si deve, dunque, partire, se si vuole correttamente comparare modelli inglesi con modelli italiani e se si vuole introdurre ed applicare i primi.

Ne consegue che, quando si parla, come alcuni parlano, di steward italiani come quelli inglesi, di celle negli stadi, di giudizi e di condanne ad horas negli stadi stessi, si rischia di parlare del nulla o quasi.

Non si considera, infatti, che la nostra Costituzione (art. 13), nell’affermare che “La libertà personale è inviolabile” vieta qualsiasi forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, nonché qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto autorizzato dall’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

Solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge e solo da parte dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, possono essere adottati provvedimenti provvisori restrittivi della suddetta libertà, essendo punita ogni violenza fisica e  morale sulle persone sottoposte  a tali restrizioni.

La giurisprudenza costituzionale in materia sancisce che provvedimenti limitativi della libertà possono essere adottati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza “mediante l’adozione di un meccanismo procedurale rigorosamente scandito nei tempi e nelle competenze, meccanismo incardinato sul carattere provvisorio del provvedimento dell’autorità di pubblica sicurezza, sulla sua comunicazione entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e sull’intervento di tale autorità nelle successive quarantotto ore ai fini della convalida dei suoi effetti” (Sentenza n. 515 del 1990).

E, ancora, “All’autorità di polizia è consentito adottare provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale solo quando abbiano natura servente  rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento della finalità del processo penale, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrifico della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità giudiziaria” (Sentenza n. 223 del 2004).

In conformità ed in coerenza con il precetto costituzionale, gli artt. da 55 a 59 CPP definiscono le funzioni,  gli appartenenti e le  attività della polizia giudiziaria, sottoposte alla magistratura.

Più  precisamente, l’art. 57 CPP stabilisce che sono soggetti di polizia giudiziaria: il personale della polizia di Stato al quale l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità; i carabinieri; le guardie di finanza; gli agenti di custodia; le guardie forestali; le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza.

L’ultimo comma dell’art 57 stabilisce che “sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinati e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi ed i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55”. Funzioni che consistono nel “prendere notizia di reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”.

È evidente, perciò, o dovrebbe esserlo, alla luce di tutto quanto precede, che gli steward italiani non possono svolgere le stesse funzioni degli steward inglesi, a meno che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 57, ultimo comma, CPP, con apposita norma di legge essi vengano espressamente qualificati agenti di polizia giudiziaria, con tutto ciò che ne deriva, nel limiti del servizio cui sono destinati e secondo le rispettive attribuzioni (servizio ed attribuzioni relative alla tutela dell’ordine pubblico negli impianti sportivi e nelle loro adiacenze).

Il che, però, ammesso pure che lo si volesse fare, non comporterebbe alcuna sostanziale differenza rispetto all’impiego degli agenti di polizia giudiziaria veri e propri ed a pieno titolo.

Quanto agli steward inglesi, è opportuno evidenziare che, in base al Football Disorder Act del 2000, “la disciplina dei banning orders (provvedimenti amministrativi nei confronti di persone fermate per comportamenti vietati in occasione di svolgimento di manifestazioni calcistiche, ndr) da misura sanzionatoria veniva mutata in quella di misura di prevenzione. Da allora, qualsiasi comportamento deviante attuato all’interno dello stadio o nelle immediate adiacenze, dalle ventiquattro ore precedenti la gara fino alle ventiquattro ore successive, è considerato un crimine connesso allo svolgimento della manifestazione in programma; in quanto tale, è considerata legittima l’immediata espulsione del colpevole dall’impianto sportivo ad opera degli steward o, nei casi più gravi, la detenzione dello stesso all’interno di apposite celle di pronta reclusione, di cui ogni stadio doveva essere dotato (ndr. celle che ogni Club deve costruire per ottenere il certificato di abilitazione a disputare il campionato di calcio) “.

Aggiungasi che, in caso di arresto con detenzione nelle suddette celle, l’arrestato può essere trattenuto fino all’arrivo del personale di polizia che, poi, lo tradurrà dinanzi ad un magistrato che ne accerterà con immediatezza le responsabilità. (cfr., anche per quanto sopra trascritto, “Il tifo violento e discriminatorio in Italia ed in Inghilterra: strategie di prevenzione e misure di prevenzione“, pag. 29, di Alberto Prati, in Rivista di Diritto ed Economia dello Sport, Fascicolo 2/ 2013).

Come simili disposizioni possano essere compatibili con l’ordinamento italiano, in particolare con l’art. 13 della Costituzione e con la correlativa giurisprudenza costituzionale, ognuno può facilmente giudicare.

Gli steward italiani, in base alla normativa nazionale vigente, hanno esclusivamente competenza in materia di accertamento dell’identità e del possesso dei titoli di accesso agli stadi, di richiamo dei trasgressori all’osservanza delle regole contenute nel Regolamento d’Uso dell’impianto, di possibilità di sollecitare l’intervento delle Forze dell’Ordine.

Essi sono equiparati a pubblici ufficiali, ma solo relativamente per quanto attiene a violenze o minacce ricevute, ma, giammai, possono o potrebbero, alla stregua degli steward inglesi, espellere direttamente chicchessia dallo stadio e, men che mai, arrestare qualcuno e rinchiuderlo in celle appositamente costruite nello stadio stesso, trattenendo l’arrestato fino all’arrivo del personale di polizia.

Né a conclusioni diverse si potrebbe pervenire, qualora gli stadi fossero di proprietà delle società: anche in tal caso, infatti, a prescindere dal titolo giuridico in base al quale si dispone dell’impianto, quest’ultimo rimarrebbe, comunque, così come un teatro o un cinema, un luogo aperto al pubblico, nel cui ambito la tutela dell’ordine e della sicurezza non può che essere di competenza esclusiva dei soggetti tassativamente previsti dall’art. 57 CPP.

Lasciano, infine, interdetti alcune dichiarazioni del Capo della Polizia, Prefetto Dr. Alessandro Pansa, (pag. 9 de “Il Corriere dello Sport”, in data 09.05.2014, articolo a firma di Fabio Massimo Splendore), secondo il quale “Saremo severi contro eventuali atti di violenza ingiustificabile da parte di chi deve operare sul fronte della pubblica sicurezza, ma non è più tollerabile che a manifestazioni autorizzate debbano prendere parte persone mascherate ed armate.

Come a dire che si ammette il fatto che, almeno finora, sarebbe stata tollerata la partecipazione a manifestazioni autorizzate di persone mascherate ed armate .

Ammissione che, ove confermata, sarebbe senza dubbio grave, se si tiene a mente che le norme vigenti (“Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico” , legge 22 maggio 1975, n. 152, e  successive integrazioni e modificazioni) vietano tale partecipazione ed autorizzano gli ufficiali e agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica a procedere, oltrechè alla identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, per accertare il possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento e la cui presenza, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo, non appaiono giustificabili.

E’ vietato, altresì, l’uso di caschi protettivi e di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso  il riconoscimento delle persone, in luogo pubblico o aperto al pubblico, comportando la violazione del divieto l’arresto da uno a due anni, oltre all’ammenda da 1.000 a 2.000 euro.

Se la persona è stata arrestata nella flagranza del reato o in flagranza differita per i così detti “reati da stadio”, si procede con giudizio direttissimo.

Dunque, quello che manca per prevenire e reprimere violenze in occasione di manifestazioni pubbliche, in generale e, in particolare, in occasione di manifestazioni sportive, non sono le norme, bensì la volontà e/o la capacità di applicarle e di farle rispettare.

Ed è questa, a mio avviso, la reale, essenziale differenza tra “modello italiano” e “modello inglese”.

Avv. Massimo Rossetti

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