Il “moderato” Rohani e l’incompatibilità tra Islam e sogno americano

Creato il 18 giugno 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il conteggio per conoscere il tempo che gli durerà l’etichetta di “moderato” comincerà da agosto, quando ci sarà il passaggio di consegne tra il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad e il chierico sciita, ex negoziatore per il programma nucleare iraniano, il “moderato” Hassan Rohani che a dispetto di molti pronostici ha vinto al primo turno le elezioni presidenziali iraniane. I dati ufficiali del ministero dell’Interno hanno parlato di una vittoria netta – il 50,71 per cento dei voti – con un distacco enorme sul secondo classificato, il sindaco di Tehran, Mohammed Baqer Qalibaf, che si è fermato al 16 per cento.

A Rohani sono andati più di 18 milioni di voti ed è una vittoria netta anche per l’affluenza alle urne: Mostafa Mohammad-Najjar in conferenza stampa ha detto che il 72 per cento dei 50 milioni di potenziali elettori è andato a votare. Tanto che, in alcuni distretti di Tehran e di altre grandi città, l’apertura dei seggi è stata prorogata per diverse ore. Infatti, la Casa Bianca ha plaudito l’esito del voto, si è dichiarata pronta a un dialogo diretto con Rohani e si è congratulata col coraggio degli iraniani che sono andati a votare «nonostante la censura e l’intimidazione». L’amministrazione Obama ha poi auspicato che sia l’ora delle «scelte responsabili per un futuro migliore», con un nuovo governo che rispetti la volontà del popolo. E’ il solito colpo al cerchio e alla botte, anche per non amareggiare Israele. Che resta scettico e giudicherà Rohani dalle «sue azioni in materia di nucleare e terrorismo», come ha chiarito il portavoce del ministero degli Esteri israeliano sottolineando che «fino a oggi sul programma nucleare iraniano ha deciso la Guida Suprema (l’Ayatollah Ali Khamenei, ndr), non il presidente». Insomma a nulla è valso che Rohani sia appoggiato da personalità di spicco quali gli ex presidenti dell’ala moderata, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Seyyed Mohammad Khatami e dall’hojatoleslam Hassan Khomeini, nipote del defunto leader della Rivoluzione Islamica, l’ayatollah Ruhollah Khomeini.

Nemmeno, per gli israeliani, ha contato il fatto che, in politica estera, il programma dello schieramento moderato-riformista al quale il nuovo presidente appartiene preveda un’apertura verso l’Occidente, in particolare nei confronti degli Stati Uniti, con l’obiettivo primo di risolvere la questione nucleare. Tuttavia, i falchi del confronto duro e possibilmente armato con la Repubblica islamica, a Washington come in Europa e soprattutto a Tel Aviv (Benyamin Netanyahu in testa) sono rimasti spiazzati da queste elezioni nelle quali – è da tutti riconosciuto – gli elettori hanno potuto chiaramente “dire la loro” esprimendo la volontà di un cambiamento della direzione della politica. Insomma, le sorprese di questo risultato sono due: la vittoria in sé e il fatto che essa sia potuta accadere. Si tenga a mente che nelle società musulmane la campagna elettorale non ha per tema la lotta per un sistema a favore o contro il capitalismo, al “modello americano” che esse ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Anche perché l’Islam non si basa sulla distinzione tra il potere temporale e quello spirituale come accade nella civiltà cristiana che appunto non fonde insieme le due parti. L’Islam è allo stesso tempo una fede e una legge, anche se a volte, il credente l’accetta a denti stretti.

Un esempio tra i tanti è l’Iran dove il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Che comunque viene tollerato, se non accettato, perché manca nella Storia nazionale un’alternativa laica e pertanto popolare. Dopotutto l’Islam è una forma di coscienza umana e sociale, è una civiltà, è una religione come tutte le altre che é stata riconosciuta ufficialmente anche dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II (1962-1965) come una religione autentica che adora il vero Dio e persegue, con la sua morale e la sua legge, il bene. Tuttavia, il fatto che l’Islam non contempli la distinzione tra il potere temporale e quello spirituale mal si concilia con lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale – il grande sogno americano – che sarebbe amministrato con una valuta mondiale a sua volta controllata da una banca centrale mondiale. Il tutto secondo i promotori è ritenuto necessario per poter raggiungere l’unità del consenso sul modo nuovo di pianificare un’esistenza che dovrà essere intrisa di desiderio consumista e di edonismo sfrenato senza i quali, sostengono ancora i promotori, il nuovo ordine non si consoliderebbe. Dunque non soltanto Coca cola e McDonald’s, bensì una “filosofia” vera e propria come formula dell’esistenza che dovrebbe etichettare il ventunesimo secolo.

Eppure non occorrono studi profondi per capire che l’Islam così com’è strutturato non può rientrare nella configurazione auspicata ed è ben difficile che vi rientri in un prossimo futuro, in mancanza anche di una società civile come l’Occidente americanizzato la vorrebbe, che non è mai potuta nascere perché il Corano non la prevede. Infatti, parlare d’integrazione del mondo musulmano verso i principi del nuovo ordine mondiale significa che ciò potrebbe essere realizzato soltanto modificando radicalmente i loro riferimenti religiosi e, per estensione, politici, economici, sociali e psicologici. Perché possa realizzarsi si devono promuovere le lotte tra i sunniti e gli sciiti, tra i musulmani e i cristiani, fino a portarli a un confronto brutale con il sionismo. Come si sta facendo, basta guardarsi in giro.

E’ in questo scenario che Hassan Rohani dovrà esercitare la sua moderazione. Me lo ricordo nel 1980 appena eletto deputato al Majlis. Aveva 32 anni, il turbante bianco (quello nero spetta soltanto ai discendenti del Profeta) e già una lunga militanza iniziata (1967) tra quei giovani che sfidavano la Savak, la Polizia segreta dello scià, distribuendo dispense ciclostilate, libretti copiati con la macchina per scrivere e le minicassette con i nastri dei sermoni di Khomeini. Sono gli intellettuali, gli studenti, insieme alle piccole formazioni politiche quasi sempre semiclandestine, che gettarono le basi per la grande sollevazione popolare. Passo dopo passo, infatti, la partecipazione si allargò coinvolgendo il mondo del lavoro e fasce sempre maggiori del mondo femminile giovanile e trascinò interi ceti medi e popolari nella protesta contro il potere monarchico che era diventato sempre più dispotico, repressivo, corrotto, militarista e dipendente dagli Stati Uniti d’America per i quali assolveva il ruolo di gendarme regionale.

Da quella realtà l’ayatollah Ruhollah Khomeini trae spunto per la sua “enciclica” più famosa nella quale afferma che: «Non vivremo mai dentro uno spazio chiuso, con le porte sbarrate verso l’esterno, ma le nostre porte non saranno nemmeno aperte alle potenze colonialiste. Le nostre relazioni internazionali devono basarsi sul principio della conservazione della nostra indipendenza e libertà, sul principio del rispetto dell’Islam e dei musulmani. A partire da tali principi ci comporteremo con gli altri nel rispetto reciproco». Dalla fondazione della Repubblica islamica (anno 1979) nessun dirigente iraniano ha mai osato contraddire pubblicamente la direttiva di Khomeini sulla politica estera del Paese. Di certo non lo farà Hassan Rohani, consapevole tra l’altro che non soltanto gli iraniani, ma l’intera comunità musulmana sciita che gli gravita intorno ha fatto propria l’affermazione di Khomeini.


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