Expo 2015 ha chiuso i battenti ieri sera, in un tripudio di luci e fuochi d’artificio, e, senza inutili trionfalismi, credo di poter affermare che è stata un’esperienza positiva per Milano e per il Paese, con buona pace dei detrattori e di chi, forse, avrebbe considerato un clamoroso insuccesso della manifestazione una vittoria (su chi e su cosa, mi chiedo).
Mi è piaciuta l’organizzazione che è cresciuta via via che le settimane passavano, in un continuo lavoro di aggiustamenti e di miglioramenti, e che non ha mollato neppure nella giornata di chiusura, quando si sono trovate soluzioni per gestire una folla enorme intorno all’albero della vita.
Mi è piaciuta l’atmosfera di mondialità, l’incontro con tanti paesi che conoscevo solo superficialmente, mi è piaciuta l’opportunità di parlare con persone di tanti mondi diversi, di conoscere, di provare a capire, di imparare comunque qualcosa.
Certo gli ultimi due mesi hanno registrato folle oceaniche e code interminabili, ma era praticamente inevitabile visto che molti padiglioni permettevano l’accesso ad un centinaio di persone per volta e la visita durava più di mezz’ora (la matematica purtroppo non è un’opinione).
Io ho iniziato a visitare Expo 2015 fin dalla prima settimana, quando il decumano era inesorabilmente vuoto, e gli addetti invitavano i pochi visitatori a entrare nei padiglioni (sì anche in quello ormai mitico del Giappone dove ho dovuto attendere una decina di minuti perché si formasse un gruppetto di persone e si potesse entrare).
Una delle cose che porto a casa dopo la manifestazione (oltre a tante conoscenze, a tanti pregiudizi sfatati, a tante nuove idee) è la voglia di ricominciare a girare il mondo, perché è nell’incontro e nella conoscenza dell’altro che si può crescere.