Pubblico di seguito il racconto scritto a quattro mani con Morena Fanti: “Il mondo ne è pieno”. Fa parte della pagina natalizia che Morena prepara ogni anno, provvedendo pure a fornire il magazine che racchiude tutti i racconti dei partecipanti.
Buona lettura.
Se ne stava seduto al buio del suo ufficio da un paio d’ore, a fare nulla. Sullo schermo del computer compariva a intervalli di cinque minuti il salvaschermo, e lui ogni volta schiacciava un tasto. Sulla scrivania allora riapparivano decine di cartelle, mentre dallo schermo si rovesciava sul suo volto, sulle mani, una luce pallida. Ma né il suo volto, né le sue mani, neppure la sua persona storta e in un perenne stato di tensione, erano qualcosa di gradevole.
Era solo.
Sospirò, si passò una mano sui pochi capelli, osservò il Rolex che segnava le sei di sera.
La sua casa editrice aveva bisogno del salto di qualità. Tutti i critici la snobbavano perché pubblicava a pagamento. Gli utenti lo attaccavano: “Un vero editore doveva rischiare il proprio denaro, non chiederlo agli autori”.
Poveri illusi!
Colpì con un pugno la scrivania: ci voleva un’idea! No, gli serviva un autore nuovo, meglio ancora se bravo e di talento, quello vero. Ma in mezzo al ciarpame che pubblicava, nessuno lo avrebbe notato: ogni mese lanciava sul mercato cinquanta nuovi autori.
Poi gli venne l’idea.
Si ricordò di quel tipo, Candido Degli Innocenti, che aveva spedito un romanzo davvero buono; uno dei pochi a usare la posta tradizionale, invece dell’email. Aveva svolto qualche ricerca sul suo conto, perché quel nome non gli suonava nuovo. Poi l’illuminazione: era un ex professore di italiano del liceo, in pensione da almeno vent’anni. Soprattutto, era il suo ex professore di italiano. Un uomo solo, dimesso, per nulla fotogenico, un tipo col pallino della bella scrittura, della narrativa come leva per rendere migliore la società.
Lui aveva fatto tesoro dei suoi insegnamenti: la narrativa aveva davvero reso migliore la società, la sua “a responsabilità limitata”.
Leggere era considerata un’attività stupida, e quei pochi che lo facevano mai e poi mai avrebbero perso tempo con un autore che non era più un ragazzo. Inoltre, lui sapeva anche che non bastava un buon romanzo per ricavarne il caso editoriale dell’anno.
Sfogliò ancora il dattiloscritto. Rilesse l’incipit, le prime tre pagine: “Convincente, davvero convincente”, borbottò. Riusciva ancora a fiutare un affare, e quello, poteva essere un best-seller.
Ma non con il suo autore. Non con quell’uomo.
Sospirò, appoggiò la schiena alla poltrona.
Giovani e maledetti, ecco come dovevano essere gli scrittori. Adatti alla televisione. Occorreva perciò liberarsi dell’ex professore e passare il romanzo a qualche giovane di belle speranze, dallo sguardo torbido e il passato misterioso.
Di gente così il mondo era pieno, e trovare chi fosse disposto a impersonare il ruolo dello scrittore, non era difficile. Sarebbe stato autore di una sola opera, si capisce. Ma questo era un problema che avrebbe affrontato a tempo debito.
Adesso era necessario scippare al professore il dattiloscritto. La faccenda era delicata. Occorreva presentargli la faccenda nel modo giusto, in un modo tale che lui accettasse.
Si sfregò il volto, sbuffò. Schioccò le dita: aveva bisogno del lavoro dell’ufficio legale “Mesta & Fosco”, uno dei migliori della città. Di certo sarebbero stati in grado di redigere un contratto legale perfetto, quindi incomprensibile anche a un ex professore di italiano. I loro servizi erano costosi, ma ogni tanto, bisognava pur spendere qualcosa.
Questo gli ricordò che doveva fermare l’emorragia di denaro dalle casse dell’azienda, cioè dalle sue. “La prima fonte di guadagno è evitare le spese”, era il suo motto, la sua filosofia di vita.
Diede un’occhiata al foglio di calcolo, e accese una lampada a risparmio energetico, anche se l’ecologia era l’ultimo dei suoi pensieri.
La voce “diritti agli autori” era ancora troppo esosa: a qualcuno aveva promesso un cinque per cento sulle vendite, decurtata l’iva ovvio, e la spesa per i diritti era di seicentocinquanta euro virgola trentacinque. Per fortuna erano ben pochi i libri che superavano la soglia di 100 euro di ricavi, e i pagamenti avvenivano raramente. Passò alla voce “spese per pubblicità”: trentacinque euro di spese postali per inviare copie gratuite a qualche giornalista per una recensione. Senza contare il valore dei volumi: questo l’avrebbe recuperato dalla dichiarazione delle copie mandate al macero.
Alzò la testa per guardare l’orologio: era ormai ora di cena e decise di avviarsi a casa.
Quando chiuse la porta, quattro mandate e un catenaccio, guardò la luce che si rifletteva sulla targa d’ottone: non ci vide la bellezza del sole che tramontava alle sue spalle ma una macchia scura che copriva in parte la lettera “L” del suo cognome. Luccio diventava uccio e sembrava un nome di cui farsi beffe. La mattina dopo avrebbe chiesto alla donna delle pulizie, una filippina, di usare più olio di gomito. La sua casa editrice, la Gustavo Luccio editore, doveva brillare nel cielo dell’editoria.
“Non hanno il senso del dovere. Del lavoro”.
Da un paio di giorni la donna parlava di “ferie”, della busta paga che riportava una cifra, mentre a lei ne veniva corrisposta un’altra inferiore. E crollò il capo, si avviò al BMW, sbloccò la chiusura centralizzata. Quando allacciò le cinture di sicurezza, aveva deciso di licenziarla.
“Il mondo è zeppo di filippine”. E ghignò.
“Mio caro, caro professore. Si sieda la prego”. Gustavo attese che Candido si accomodasse e iniziò a parlare: “Il suo romanzo non è male. Ha qualche pecca ma l’idea di fondo è buona. Bisognerebbe rivederlo, limarlo, editarlo ma forse potrebbe uscirne un testo discreto. Certo, tutto ciò comporterebbe molto lavoro, e molte spese per la mia casa editrice…”
Il vecchio professore ascoltava in silenzio. Sistemò gli occhiali dalla montatura in oro sul naso, sospirò. Lasciò passare alcuni minuti prima di parlare:
“Se comporta tanto lavoro forse è meglio lasciar per…”
“No, no, tutt’altro!”. Esclamò. Aprì una cartellina, estrasse alcuni fogli pinzati in un angolo, e li tenne in mano, mentre parlava:
“Io mi ricordo bene di lei. Non so se lei riesca a ricordarsi di me, sono passati così tanti anni. E con tanti studenti da seguire, alla fine rimangono in mente solo i migliori”.
“Tutt’altro. Ho buona memoria anche per i peggiori. Di lei ricordo con dolore l’indifferenza, una certa ottusità”.
Gustavo impallidì, fece un sorriso forzato. Infine si strinse nelle spalle:
“Sa, la gioventù rende sciocchi. Poi si matura, si migliora”.
“Non è detto”. Dalla tasca del cappotto l’ex professore prese un fazzoletto di tela, si tolse gli occhiali e iniziò a pulirne le lenti. Gustavo strizzò gli occhi, disse:
“Qui c’è il contratto. È raro che si proponga subito qualcosa del genere a chi esordisce. Di solito, ci sono una serie di incontri che servono per conoscere lo scrittore, e cercare di capire se davvero la scrittura è importante per lui. Se vuole creare qualcosa che resti o si accontenta di pubblicare”.
Glielo porse.
Il professore inforcò gli occhiali e iniziò a leggere, senza fretta. Gustavo aveva in mano una magnifica stilografica Aurora, già la porgeva, ma Candido arrivato in fondo alla prima pagina disse: “Bah!”, e ricominciò a leggere.
Gustavo respirò a fondo. Gettò un’occhiata alla penna e infine la poggiò sul piano. Pensò:
” Sono stato un idiota a pensare di poterlo fregare con un contratto. Questo spulcia tutto!”.
Candido crollò il capo, e attaccò a leggere il secondo foglio del contratto. Poi il terzo e ultimo.
Gustavo gettò un’occhiata all’orologio; era da venti minuti che il suo ex professore lo stava passando al setaccio. Rimise la penna stilografica nella tasca interna della giacca di velluto. Si diede dell’idiota, ma la cosa che più lo faceva infuriare era che lo studio legale doveva essere pagato comunque.
Candido posò il contratto sulla scrivania. Si alzò in piedi. Lo osservò per qualche istante, disperso oltre la larga scrivania di mogano, poi girò sui tacchi e si diresse verso la porta.
“Ma, professore”, mormorò Gustavo, “non dice nulla? C’è qualcosa che non va? Possiamo parlarne…”.
Il professore calò la mano sulla maniglia, l’abbassò, la tirò a sé, infine si voltò:
“Lei è peggiorato, dal liceo. Prima era solo un ottuso e sciocco ragazzo. Adesso è diventato un ottuso, avido e meschino uomo. Buona sera. E buon Natale”.
Allo scatto della porta che si chiudeva, Gustavo sobbalzò. Si passò la lingua sulle labbra e soffiò. Diede un colpo alla tastiera del computer, e dal calendario si rese conto che era il 24 dicembre.
“Natale! La festa degli scemi!”. Un suono lo avvisò dell’arrivo di alcune email. Diede un’occhiata veloce, per scoprirne una della banca, che lo avvisava dell’accredito sul suo conto corrente di oltre 22.000 euro. Una decina di autori esordienti aveva abboccato, e versato la cifra pattuita. Sorrise, gettò un’occhiata al contratto abbandonato sulla scrivania. Lo prese, lo passò al distruggi-documenti.
“Per fortuna che gli scemi non vanno mai in ferie”. Disse, e pensò che dopotutto, restare una casa editrice senza un vero autore, non era poi così male.