Come è iniziata la tua carriera di donna di teatro?
La mia carriera è frutto di vari processi non è stata immediata, nasco inizialmente come pittrice. Fin da piccola disegnavo molto, per lo più donne, (con la rapitograph di mio padre che è architetto) ed avevo un mio stile molto particolare. I miei genitori, avendo notato il mio talento, hanno pensato bene di farmi esporre i quadri convincendomi che quello sarebbe stato il mio destino. Presto però ho smesso perché evidentemente non era il mio percorso, infatti già a dodici anni volevo fare l’attrice e l’ho capito dopo aver visto un film con Anna Magnani “Roma Città Aperta” di Rossellini. Ho fatto di tutto per studiare recitazione: mi bocciarono alla maturità e di lì a poco andai a vivere a Roma dove sono stata presa alla Scuola di Proietti. Ho trascorso due anni molto belli e formativi; ho fatto lezione con Ingrid Thulin, Rossella Falk, Ugo Gregoretti, Nanni Loy, Leda Lojodice, Alvaro Piccardi ed anche con Proietti che è un bravissimo insegnante. Una volta uscita dalla scuola ho cominciato a fare l’attrice e ricordo con molta emozione la sostituzione che feci in uno spettacolo di Vittorio Gassman che metteva in scena “Affabulazione” di Pasolini, tra l’altro io non avevo mai visto un suo spettacolo e all’inizio Gassman mi inibiva molto, ma per fortuna è andato tutto bene. Alla fine di quella esperienza ho capito però che non mi piaceva la vita di “compagnia”: mi intristivano le guerre interne e le rivalità.
Quindi hai smesso di fare teatro?
Sì ho smesso per due anni e durante questo periodo sono andata a vivere a Roma a San Lorenzo e lì, passeggiando nei vicoli e ascoltando parlare le persone, ho imparato il romano. In questi anni ho scoperto anche di avere un mondo interiore fortissimo che sentivo di dovere in qualche modo esprimere e allora scrissi il mio primo testo in slang romano “Ragazze al muro” (spero possa essere pubblicato presto). Lo misi in scena proprio a san Lorenzo e per interpretarlo chiamai una ragazzina che non aveva mai fatto l’attrice e che parlava solo romano, un romano non stereotipato, vero, autentico. Non sapevo che avrei scritto un testo in dialetto perché venivo da Terracina e solo dopo ho capito, leggendo anche le esperienze di Fellini e Pasolini, che provenendo da un altro mondo avevo colto delle sfumature che probabilmente uno del posto non avrebbe mai notato. In realtà io sono nata a Roma; ci ho vissuto fino all’età di sei anni, poi mio padre che era di Terracina ha voluto trasferirsi lì, ma io non lo ricordo.
Forse anche perché il romano è un dialetto che attraverso modi di dire e metafore permette di lavorare molto con le immagini?
Sì infatti questo è importante perché io mi sono sempre considerata una spettatrice “di coccio” cioè “lenta”: bastano tre parole in più o tre movimenti in più, pesanti o che sono di troppo, di abbellimento che io già mi sono distratta. Allora l’unico riferimento a cui devo sempre rispondere sono io stessa; quando lavoro mi pongo sempre come se fossi io lo spettatore, uno spettatore “somaro” , incapace e quindi per far capire devo arrivare al sodo, l’immagine deve arrivare in poco, in modo essenziale, comprensibile.
Il mio intento però non è mai quello di esplicare concetti, dare una morale o un messaggio, posso essere solo molto coerente rispetto a quello che sto creando.
E questo forse è già un messaggio.
Si il messaggio diciamo che è la coerenza della mia scelta, assumermi la responsabilità rispetto all’opera cercando di sporcarmi le mani fino in fondo. Poi se decido un tema, una storia, un punto di partenza, allora lo porto fino in fondo e lotto fino allo stremo delle forze, fino a che non lo realizzo. To Be Continued…