Il museo degli errori

Creato il 12 gennaio 2012 da Rulm @rulm

Premessa Da qualche tempo, riordinando un po’ i miei “archivi”, ho ritrovato il testo di una mia recensione incompiuta della mostra “La menzogna della razza” e del relativo catalogo. Avevo iniziato a scriverla per il numero 6, 1997 della rivista altreragioni, ma, poco dopo, avevo preso una pausa temporanea nell’attività della rivista, e non avevo così portato a termine quel lavoro.
Recentemente, più o meno contemporaneamente al mio “ritrovamento” di quel testo incompiuto, Giorgio Forni ha pubblicato una recensione del volume Spettri dell’altro, raccolta postuma di diversi scritti di un inobliabile amico comune: Riccardo Bonavita (1968-2005).
La recensione di G. Forni si apre ricordando l’occupazione pacifica, da parte di centinaia di studenti, nel febbraio 1992, dell’aula magna della Facoltà di Lettere e filosofia, in cui avrebbe dovuto parlare Ernst Nolte, osservando:
Quella giornata, che allora ebbe una risonanza addirittura europea, fu un piccolo evento di vita universitaria, ma alcuni fra coloro che vi presero parte con più entusiasmo vi sentirono forse un impegno ulteriore di approfondimento critico e di memoria civile. Vero è che, a uno sguardo retrospettivo, quell’atto di dissenso giovanile segna l’avvio di una pluralità di ricerche e di iniziative che hanno attraversato la culturabologneseeitalianaperquasiventanni …”
Dato che il mio breve inedito ritrovato è un segmento prodotto nell’ambito di quella pluralità, lo pubblico di seguito, come un segmento di parziale di quel complesso reticolo di ricerche e iniziative, simultaneamente alla ripubblicazione in questo blog della recensione di Spettri dell'altro.
In memoria di Riccardo Bonavita
Rudy M. Leonelli
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Il museo degli errori

Centro Furio Jesi
La menzogna della razza.
Documenti e immagini del razzismo e dellantisemitismo fascista [1]
Bologna, Grafis edizioni, 1994, pp. 399
Alcuni resoconti della mostra realizzata negli ultimi mesi del ’94, a Bologna, a cura del Centro Furio Jesi riferiscono della sconcertante bellezza di questo lavoro:
«Quando ho visto la mostra allestita (ed ho letto il relativo catalogo, che solo 75.000 lire, ma ne vale assai di più) sono rimasto veramente colpito: scienza storica e abilità espositiva erano state fuse in una realizzazione che, nonostante la nefandezza della materia, deve essere definita bellissima» (M. Sarfatti)
«L’indigeribile bellezza della mostra di Bologna è proprio questo affollarsi di immagini che non si limitano a confermare il pregiudizio razziale, ma in larga misura lo creano, gli danno forma» (M. Smargiassi) [2]
Nel primo caso è in questione l’intelligenza stessa della struttura (mettere – letteralmente – in mostra le fonti non è un “semplice” gesto di ostensione). Nel secondo, vediamo riemergere, mutato, quel diritto elementare di essere affascinati «davanti a tante invenzioni perverse, discorsi cinici, minuziosi orrori» del quale aveva parlato Deleuze [3].
Documentare l’esistenza, la consistenza, lo spessore dei razzismi del fascismo italiano, significa lavorare alla cerniera tra conoscenza storica e senso comune, intaccando sedimentate complicità. Per questo, un lavoro teso a/tra gli estremi del discorso storico – dalle fonti, appunto, alla divulgazione – , sperimentando il contatto diretto, trova nella forma-mostra un laboratorio adeguato, che riesce a funzionare predisponendo la possibilità percorsi molteplici e di diversi livelli di lettura.
La scelta di un criterio nella distribuzione dei materiali permette di costruire con sufficiente ampiezza diverse sezioni dello spazio del razzismo e, schivando i confortanti e inefficaci rituali del pedagogismo, sollecita l’attenzione del visitatore e, schivando, sollecita l’attenzione del visitatore non sul singolo documento emotivamente “emozionante”, ma sul reticolo nel quale è inserito; non l’osservazione di un pezzo, ma l’osservazione di macchina, e del suo funzionamento.
Due “logiche” un regime
La divisione in tre grandi sezioni (Pregiudizio e propaganda - Ideologia - Prassi persecutoria) permette di non separare verticalmente le due regioni fondamentali (coloniale e antisemita) dei razzismi del fascismo, intersecandole diagonalmente nei diversi ambiti di ricerca, secondo uno stile di analisi che tende ad investigare una concreta esperienza storica senza commisurarla a precostituiti “tipi ideali” di razzismo. Del resto, non è certo per arbitrio dei curatori che le due distinte regioni del razzismo si trovano compresenti nei diversi spazi analizzati: scegliendo di riprendere quale emblema della mostra, la copertina dei primi numeri de “La Difesa della Razza” (divenuta successivamente logo della rivista), raffigurante «un gladio che separa una testa “ariana” da possibili contaminazioni con “semiti” e “camiti”» si sottolinea efficacemente la problematica coesistenza storica dei razzismi che la “scienza” e l’ideologia fasciste cercavano di sintetizzare [4].
All’incrocio tra attualità e storia, esistono in effetti molte buone ragioni per esaminare e presentare insieme razzismo coloniale ed antisemitismo.
La prima (senz’altro in questo caso la più importante, in quanto è un po’ l’origine e il “bersaglio” della mostra) è che entrambe le esperienze cardinali dei razzismi del fascismo sono tuttora oggetto di persistenti – e distinte – forme di negazione o riduzione: immagine “bonaria” del colonialismo fascista tramandata nella doxa,; riduzione ad “accidente” dell’antisemitismo fascista secondo diverse declinazioni, dalla storiografia che presenta il fenomeno come mera “concessione” all’alleato nazista, giù giù, fino al nuovo verbo postfascista che derubrica la promulgazione delle leggi razziali ad “errore” che fu causa di un “orrore”.
Ancora: se, partendo dalle urgenze del presente, cerchiamo di criticare storicamente il perdurante mito del bravo italiano, che ha tra i propri assiomi la reciproca estraneità dell’antisemitismo e del “popolo”, troviamo una significativa, sebbene indiziaria, intersezione con il razzismo coloniale: pesiamo al motivo della “bontà innata della razza italiana”; che lo scavo della letteratura coloniale condotto da Riccardo Bonavita ha riportato in luce. Prima di essere il non-antisemita, il “bravo italiano” è un colonialista buono. Vediamo qui profilarsi linquietante paradosso di una razza non razzista (ipotesi di un concatenamento possibile negazione dell’antisemitismo e negazione razzista del razzismo coloniale) [5].
Più in generale, mi sembra che questa ricerca sottenda e rilanci, situandola in uno spazio storico determinato, una problematica cruciale nell’attuale riflessione sul razzismo.
Mi riferisco in particolare a quelle letture critiche che sottolineano come la distinzione tra due logiche razzizzanti, formalizzata da Taguieff in due serie eterogenee:
- “autorazzizzazione/differenza/purificazione-epurazione/sterminio”
- “eterorazzizzazione/ineguaglianza/dominazione/sfruttamento”
non sia linearmente traducibile nella storia effettiva.
Leggiamo in Wieviorka:
«Che si debba sottolineare l’indipendenza concettuale delle due direttrici non significa certo che esse funzionino necessariamente separate nella pratica storica: è semmai vero il contrario. Numerose esperienze coniugano la logica della differenza e quella dell’ineguaglianza, sovrapponendole o cercando di integrarle in una sola forma politica … Finché il razzismo è debole, frammentato, le due logiche fondamentali sono spesso dissociate, e non è raro che una sola di esse sia veramente presente; ma quando il razzismo giunge a livello politico e tende all’unità, ciò comporta anche la presenza congiunta delle due logiche, per quanto contraddittorie possano apparire»[6].
E, se ci riportiamo alla svolta che prepara l’introduzione delle leggi razziali, alla “Dichiarazione sulla razza” approvata dal Gran Consiglio il 6 ottobre 1938, troviamo che l’antisemitismo è esplicitamente proposto come articolazione di una politica razziale globale:
«Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge una attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze incalcolabili, da incroci e imbastardimenti.
Il problema ebraico non è che che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere più generale» [7].
La saldatura tra tra le due dimensioni del razzismo ha nel fascismo valenza dottrinaria, come mostrano bene i brani che il catalogo stralcia da Il secondo libro del fascista al capitolo “Cosa devo sapere della razza”Il testo – raccomandato, insieme con il primo libro, dal ministro Bottai alla sollecitudine di Provveditori e Presidi ai fini di “una diffusione potenzialmente totalitaria” – fissa nella lapidaria ridondanza di una catechesi la missione “universale” della razza, dall’antisemitismo alla supremazia sui colonizzati:
D.[domanda] A quale razza appartieni? R. [risposta] Appartengo alla razza ariana. / D. Perché dici di essere di azza ariana? R. Perché la razza italiana è ariana … D. Qual è la missione della razza ariana? R. La razza ariana ha la missione di civilizzare il mondo, e di farne incessantemente progredire la civiltà. / … D. Perché il Regime Fascista ha preso i provvedimenti riguardanti gli ebrei? R. I provvedimenti razziali del Regime sono stati presi per tutelare la purezza del sangue italiano e dello spirito italiano e per difendere lo stato contro le congiure dell’ebraismo internazionale. / … D. Qual è il primo dovere dell’Italiano che vive sul territorio dell’Impero? R. Il primo dovere dell’Italiano che vive sul territorio dell’Impero è quello di mantenere il prestigio di razza, mostrandone costantemente la superiorità agli indigeni [8].
La coesistenza, alla soglia decisiva del razzismo di stato, di razzismo coloniale e antisemita nell’esperienza storica si un unico regime, fa del fascismo italiano un caso di importanza strategica per il possibile sviluppo di un’analisi che cerchi di interrogare sul piano della storia effettiva le interazioni tra i due percorsi.
È un problema al quale la mostra, ponendosi come gesto di documentazione e di apertura, non ha la pretesa di dare risposta, ma che sembra implicitamente sollecitare, esponendo una struttura che – dai colori della propaganda al grigiore delle circolari – è percorsa dai due “fili” del razzismo.
Una politica, tre razzismi
Ma, se guardiamo da vicino l’ideologia che deve garantire la saldatura tra i due campi a livello di razzismo di stato, troviamo che questo operatore di sintesi non è a sua volta omogeneo.
Il saggio di Mauro Raspanti, che esamina la specificità del razzismo fascista sul piano dell’articolazione storica delle teorie, fa emergere una formazione instabile, un campo di rapporti di forza mutevoli, solcate dagli scontri e dalle alleanze tra diverse correnti, segnate da un variabile grado di conformità alle esigenze congiunturali dei centri di potere.
Credo che questa ricognizione della complessità interna del razzismo fascista sia sollecitata dall’esaurirsi dell’antirazzismo tradizionale, e possa assumere particolare rilevanza proprio a fronte della sperimentata inefficacia di una cultura che tramandava un’immagine semplificata del nemico, ridotta univocamente al razzismo biologico.
Una ricerca storica non preventivamente sottomessa a quel modello mostra che, sin dall’inizio, le cose non sono cosi semplici: «L’esistenza di correnti differenziate, spesso in contrasto tra loro, all’interno dell’ideologia fascista sulla razza, è immediatamente percepibile sin dalle prime battute dell’ideologia fascista di stato» [9].
L’analisi definisce tre diversi filoni
- il “razzismo biologico” in senso proprio, che informa il “Manifesto degli scienziati razzisti” del luglio 1938, che raccoglie gli antropologi Guido Landra e Lidio Cipriani, e trova espressione nella rivista La Difesa della Razza, (5 agosto 1938 - 20 giugno 1943), diretta da Telesio Interlandi, che si avvale della collaborazione di Giorgio Almirante (segretario di redazione, ebbe anche in seguito un ruolo importante nel garantire la continuità del razzismo di stato nella Repubblica si Salò);
- il “nazional-razzismo” che ha come esponenti di rilievo a livello “scientifico” Nicola Pende e Sabato Visco e , sul piano politico, il nazionalista Giacomo Acerbo. Questo indirizzo sottolinea l’importanza dei fatt[1]ori storico-culturali e tende a privilegiare il concetto di “stirpe” rispetto a quello biologico di “razza”;
- il “razzismo esoterico-tradizionalista”, una corrente che, afferma il suo principale ideologo, Julius Evola, «non considera la razza come una realtà soltanto somatica e biologica, bensì anche come una realtà interna, animica e spirituale» [10] ...
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Note
[1] Realizzata a Cura del Centro Furio Jesi, e promossa dall’Istituto Beni Culturali dela Regione Emilia Romagna, dalla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio e dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza “Ferruccio Parri” la mostra, allestita a Bologna dal 27 ottobre al 10 dicembre 1994, esponeva documenti originali. Attualmente è in circolazione una copia per soddisfare le numerose richieste da parte di diverse città.Tra i vari lavori critici dedicati alla mostra e al suo catalogo ricordo le due recensioni su rivista che precedono la presente segnalazione: M. Nani, “La menzogna della razza: i razzismi del fascismo italiano”, Marxismo oggi, 1, 1995; S. Bon, “Razzismo, antisemitismo e Shoah: a proposito di alcune mostre recenti”, Qualestoria, 1-2, 1995.
[2] M. Sarfatti, “La menzogna della razza. Una mostra nata in stazione”, Bollettino della Comunità ebraica, dicembre 1994, p. 27.
M. Smargiassi, “Un popolo di poeti, navigatori e razzisti”, la Repubblica, 26 ottobre 1994.

[3] G. Deleuze, Foucault, Paris, Minuit ,1987, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1987, p. 32.
[4] I criteri di organizzazione (ripresa e deformazione operativa di una tripartizione operativa proposta da Taguieff) sono tematizzati nell'introduzione al catalogo della mostra sono tematizzati nell’introduzione al catalogo, de La menzogna della razza d’ora in poi citato con la sigla MR, (MR, pp. 11-13). Per La difesa della razza e il suo logo, vedi scheda n. 163, in MR, pp. 230-231.
[5] Cfr. D. Bidussa, “I caratteri ‛propri’ dell’antisemitismo italiano”, in MR, 113-124 e Id., Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore,1944. Sulla “bontà innata” della razza vedi scheda n. 83, in MR, pp.186-187.
[6] M. Wieviorka, L’espace du racisme, Paris, Seuil, 1991, trad. it. Lo spazio del razzismo, pp. 82-84.
[7] Pubblicata nel “Foglio d’ordini” del pnf, n. 14 del 26 ottobre 1938, riprodotta in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi (1961) nuova ed. ampliata, 1993, p. 573.
[8] scheda N. 101, in MR, p. 196-197.
[9] M. Raspanti, “I razzismi del fascismo italiano”, in MR, p. 78.
[10] J. Evola, cit. in M. Raspanti, cit., 82.

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