Con la consapevolezza meta-letteraria del terzo millennio, Pamuk scrive un romanzo che parla della Turchia, ma dialoga con la tradizione occidentale modernista, ostenta disinteresse storico-politico, ma intanto ricorda che la storia si fa (anche) attraverso la ricostruzione delle vite umane. Nasce così Il museo dell’innocenza, romanzo fiume, sulla storia personale di Kemal, un giovane turco occidentalizzato che inizia, quasi per caso, una storia nascosta con una lontana parente a poche settimane dal suo ufficiale fidanzamento. E quella che potrebbe rivelarsi come una precoce caduta nel solco dell’abitudine delle classi alte (matrimonio comme il faut, storia extra-coniugale con l’amante) lo precipita invece in una travolgente ossessione. L’amore-feticcio per Fusun segna infatti la biografia di Kemal come l’evento della vita, per sempre. Tutto vi ruota intorno. E porterà il protagonista a inseguire la sua bella nello spazio (di una Istanbul vissuta con amore, quello sì, davvero autobiografico) e nel tempo. Fino a quella che il narratore stesso definisce, perentoriamente, una fine “felice” per se stesso. Ma che in ogni caso per il lettore saprà di dolce-amaro. Nel mezzo, come si diceva, tanta letteratura di primo Novecento (Proust ed Edith Wharton, tra gli altri), riferimenti alla storia politica del mondo (che serve al lettore occidentale per contestualizzare quella Turca – l’Italia, per esempio, è presente con il rapimento di Aldo Moro), ma soprattutto il “Museo dell’innocenza”. Vale a dire quel progetto (del protagonista, nel testo, dell’autore del libro, nella realtà, con esplicito e consapevole effetto di rispecchiamento) che contribuisce a raccogliere (nel nome dell’amata Fusun) tutta una serie di cose, oggetti, reperti che si fanno documento; e che, nei fatti, contribuiscono a costruire la storia sociale di una città, uno Stato così totalmente al confine tra due continenti e due mondi (Europa e Asia, religioni occidentali e Islam, passato e presente, tradizione e futuro). Il romanzo, dunque, da storia finzionale, si fa catalogo di un progetto di conoscenza (per il quale Pamuk spende, consapevolmente, la sua voce autorevole di Nobel). Così come al lettore è richiesto in maniera esplicita di vestire (anche) i panni del visitatore. Dal romanzo al Museo (che esiste nella realtà) e ritorno, il libro si chiude su se stesso. E, se la lunghezza della trama, o il reticolo dei riferimenti si fa a volte un poco troppo ampio, il romanzo vince, nel suo complesso, la sua duplice scommessa. Nella capacità di costruire una storia d’amore paradossale, e vivida, così come in quella, sotto traccia, ma altrettanto importante, di recuperare la specificità della cultura turca alla tradizione occidentale.
La ‘povna ha letto questo libro ancora in piena estate, a fine agosto: mentre, all’agriturismo dello zio Matto, si divideva tra gli amici del nord e il gatto Semolino. E poiché oggi, finita la scuola (a approfittando della gentilezza di Mafalda, che viene di giorno libero, e le fa supplenza), prende il treno in direzione per una volta opposta, e se ne va al nord, come ai vecchi tempi, a un matrimonio e una festa, le sembrava di buon auspicio ricordare proprio questo. Per partecipare, come sempre, al venerdì del libro.