“Il museo immaginato” di Philippe Daverio

Creato il 28 maggio 2013 da Sulromanzo

Immagina di trovarti all'interno del tuo museo ideale. Quali dipinti non potresti fare a meno di vedere alle pareti? Quali sculture collocheresti nelle varie stanze?

Molti ritengono l'arte come una materia non necessaria, non utile al progresso. E allora molti la snobbano, la maltrattano. É dell'11 aprile 2013 l'inchiesta del giornalista Gian Antonio Stella nel Corriere della Sera, che ci testimonia quanto il popolo italiano dia “importanza” all'arte.

Secondo Stella, l'insieme dei musei pubblici d'Italia guadagnano meno del Louvre. Ed è un paradosso se si pensa che il primo museo del mondo fu italiano: i Musei Capitolini a Roma.

Per quale motivo l'arte sembra essere ritornata allo stato di rovina in cui versava tra la fine dell'Impero Romano e il Quattrocento?

Italiani più dediti alle cose pratiche, funzionali. Ma siamo davvero sicuri che l'arte sia da escludere da ogni dimensione pragmatica?

Partendo dalla frase dell'artista e giornalista Benedetto Marcucci: “L’arte è quell’attività umana apparentemente non funzionale a nulla, ma necessaria affinché funzioni il tutto”, si può constatare come l'arte sia in realtà necessaria all'uomo per esplorare il mondo dei propri sentimenti, che altrimenti verrebbero soffocati dalle esigenze primarie della vita, come il lavoro, il sostentamento.

L'arte si configura come portatrice di benessere psicofisico, tanto da essere considerata fondamentale anche nella crescita dei bambini per il loro sviluppo fisico-cognitivo-emotivo. Il bambino attraverso la forma artistica, immagina di creare il suo mondo, in cui tutto é al suo comando, in cui tutto viene permeato e plasmato dai colpi di una bacchetta magica.

Ed è proprio da qui che ognuno di noi dovrebbe ripartire: liberare la mente e farsi cullare dal potere dell'immaginazione per riunire ciò che più ama in uno stesso spazio, suddiviso nei luoghi che maggiormente frequenta nella vita come una biblioteca, una sala da pranzo, una cucina, una camera da letto, un giardino.

Il tutto crea la struttura progettata ne “Il museo immaginato” del critico d'arte Philippe Daverio (Rizzoli), insignito di onorificenza il 18 aprile 2013, con decreto del Presidente della Repubblica, col titolo di benemerito dell'arte.

L'autore immagina di creare un museo suddiviso in differenti sale indicate nelle pagine del testo, in una mappa planimetrica, la quale prevede un piano terra, un seminterrato e un primo piano. Ogni sala vede al proprio interno pareti decorate con i dipinti che meglio si addicono al contesto delle singole stanze.

Lo spettatore accede all'edificio attraverso un'anticamera, una sorta di hall di un hotel, accolto non da un cortese consierge che chinandosi dà il benvenuto, ma dalla Sacra Famiglia di Michelangelo Buonarroti, meglio noto come “Tondo Doni”, verso cui lo spettatore si sente in obbligo di mostrar riverenza.

Ogni buon museo deve prevedere secondo il critico d'arte un Pensatoio prima di poter accedere alla Biblioteca “perché essa – come dice il critico – esige rispetto e come tale non tollera la palpebra che lentamente cade durante la consultazione”. Seduto accanto al visitatore, “San Gerolamo nello studio” di Antonello da Messina, intento alla lettura; un gruppo di osservatori attorno a uno scienziato che, a lume di candela, mostra il suo “Esperimento su un uccello” e una perfetta guida turistica “Dante” di Giusto di Gand, che preannuncia il nostro viaggio-visita all'interno della Biblioteca.

L'enorme dipinto de “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis David circonda il visitatore di un'atmosfera solenne fatta di gesti eroici, di colori che richiamano l'idea di fratellanza, uguaglianza e libertà. L'idea di ritorno ad un epoca antica, caratterizzata dall'eleganza, dalla sobrietà contro l'esagerazione e la stravaganza barocca che si era diffusa al tempo della realizzazione dell'opera.

La compostezza regna in un luogo come la sala di lettura, dove incontriamo la Sacra Famiglia con santi, angeli e il condottiero italiano Federico da Montefeltro che Piero della Francesca non esita  ad evidenziarne il conosciutissimo profilo.

Dall'immagine di una “Città ideale” in sintonia con la perfezione che si tenta di stabilire con la prospettiva rinascimentale, si passa alla rappresentazione di una città vera, quasi una istantanea delle strade di una città caotica del XXI secolo.

Il disordine, da cui il visitatore rimane sconvolto, rientra appena varcata la soglia del Gran Salon. Personaggi che evocano pace interiore, che riportano l'ignaro passante a un piacere sublime: i gesti delicati, quasi impercettibili (se non fosse per il gioco improvviso di Flora e Zefiro) di Venere, delle ninfee e del giovane Zeus, i quali si nascondono all'ombra di alberi fioriti perché “Primavera”. Zefiro ricompare con un'altra figura femminile questa volta per festeggiare “La nascita di Venere”, trasportata dal mare. Non poteva mancare la mano di Sandro Botticelli, per la cui opera si è assegnato il secondo posto, vinto da “La notte stellata” di Van Gogh, nella classifica dei dipinti più ricercati dagli utenti di Google Art Project negli ultimi sei mesi.

L'intima atmosfera del Gran Salon si dirada per entrare nella Sala da pranzo, più umana, più conviviale. Subito troviamo l'allegria di un matrimonio, “Le nozze di Cana” di Paolo Veronese e il “Pranzo di Ostriche” di Jean-François de Troy. Lo sguardo oramai attratto dal cibo presente in questi banchetti si posa su un “Canestro di frutta” di Caravaggio, su una “Cesta con ciliegie, prugne e melone” di Louise Moillon. L'affamato passante vorrebbe fermarsi a rubare un frutto, ma riconosce che la fame di conoscenza è più forte dell'appetito (ricordiamo, tutto ciò è pura immaginazione).

Dopo una breve visita al Petit Salon, riservato a una cerchia più ristretta di ospiti, si passa alla Sala da Gioco e delle Curiosità. Non poteva mancare la sala della malattia del secolo, la ludopatia. Quasi una corsa affannata porta il visitatore all'interno di questa stanza. Deluso (forse) perché incontra solo un “Giocatore di carte” di J.B. Simeon Chardin. Non dobbiamo dimenticare che siamo all'interno di un museo: l'atmosfera deve essere contemplativa, elitaria. E dunque il gioco diventa curiosità: il collezionismo diventa il protagonista. “Insetti e frutti” di Jan Val Kessel; “Kunstkammer” di Johann Georg Hainz.

Più rustica la visione successiva: quella delle Cucine. Tutto ciò che serve: un tavolo, un forno a legna, padelle, casseruole. Manca il frigorifero, il forno a microonde, la lavastoviglie, ma, si sa, siamo in un contesto di pura immaginazione e per assaporare il valore della vita il surplus è bandito. Qui nulla si esibisce, tutto si contempla.

E dunque si incontra la “Fruttivendola” di Vincenzo Campi; una dama che sceglie i prodotti nella “Dispensa” di Frans Snyders; un gruppo di sommelier a celebrare il “Trionfo di Bacco” di Velazquez.

Quasi in preda al sonno che lo coglie come in seguito a una grande abbuffata, lo spettatore ora procede più speditamente.  Allora entra nella Grande Galerie, dove tutti si ammirano in perfetto silenzio, quasi in posa per una fotografia. Una “Dama con liocorno” di Raffaello; un uomo stanco dell'attesa “Louis-François Bertin” di Ingres; un'elegante “Signora con pelliccia” di El Greco.

Stordito da quegli sguardi, giunge alle Camere da Letto, non luogo di riposo, ma di spazio di condivisione per “la vita sociale, pensando al gusto da petite maison aux volets verts”. Un luogo in cui poter ammirare la “Adorazione dei magi”di Dürer oppure un “Bacchino malato” di Caravaggio.

Ora il visitatore sente il bisogno di ossigeno per la mente, risvegliata d’improvviso da suoni che provengono dalla “Camera della musica”. “Senza musica la vita sarebbe un errore” dichiara F. Nietzsche. Mai sentenza fu più giusta: la felicità negli occhi si nota in “Giusto Ferdinando Tenducci” di Gainsborough che intona un motivetto; da una “Fanciulla con la tastiera” di Fragonard.

L'ossigeno per la mente non soddisfa più il passante, il quale sente la necessità di uscire all'aria aperta per accedere alla Chiesa e al Giardino. Si ferma per una manciata di minuti in atto contemplativo di fronte alla “Crocifissione” di Giotto per poi procedere verso l'“Altare di Isenheim” di Grünewald.

Termina così il viaggio all'interno di un “Museo immaginato”.  Il visitatore soddisfatto ritorna nella sua dimora. Non si accorge però che alle sue spalle percorreva le stanze un ulteriore visitatore, al contrario, insoddisfatto per la mancata presenza di alcune visioni più meritevoli di esser incluse all'interno della struttura. Non è riuscito infatti a vedere la “Monna Lisa” di Leonardo, alcuni “Orologi” di Dalì; dalle finestre non ha visto alcun “Campo di grano” di Van Gogh.

Tant'è, si sa, che dietro ad ogni novità, c'è sempre un italiano che si lamenta che le cose non funzionano bene.

“Gli italiani, generosissimi in tutto, non sono generosi quando si tratta di pensare”, diceva Carlo Emilio Gadda. Il pensiero e l'immaginazione sono alla base delle forme artistiche, della storia dell'arte che, come dichiara lo stesso autore Daverio, è la nostra identità.

Una frase manca scolpita forse in questo museo immaginato, che è stata espressa dal critico. Una sentenza su cui lo spettatore italiano dovrebbe meditare e che riassume i motivi per cui sembrerebbe necessario un ritorno al rispetto della materia. La potremmo immaginare in una stanza aggiuntiva a quelle pensate dall'autore: una Sala Cinema.

Al suo interno autoritratti di Leonardo, Raffaello, Van Gogh, Gauguin e su una delle pareti uno schermo che proietta la scritta:

“Gli italiani studiano a scuola la Storia dell'arte. Tedeschi e francesi no, ma questi la rispettano”.

Ecco dunque che il nostro museo immaginato siamo noi.

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