Il nastro bianco di Mikael Haneke. Un monito
Creato il 20 ottobre 2011 da Spaceoddity
Quando ero a Friburgo, nel 2009, ogni mattina, per recarmi a lavoro, passavo davanti una multisala che dava sempre Das weiße Band. Eine deutsche Kindergeschichte (Il nastro bianco. Una storia d'infanzia tedesca), più altri titoli, che invece cambiavano in continuazione. Il mio tedesco era allora inadatto a reggere un film di due ore e venti in originale, né adesso me lo consentirebbe la mancanza di esercizio, senza i sottotitoli. D'altra parte, dopo averlo visto, non si fa fatica a capire per quale ragione allora si desse la precedenza assoluta a questo titolo, di cui oggi si parla così poco.
Il nastro bianco (2009) di Mikael Haneke è infatti un film, per certi aspetti, straordinario. Il bianco e nero della fotografia conferisce a questo lungometraggio una lucentezza e una forza che non ritrovavo da tempo nei film, nonostante io faccia sempre attenzione a certi aspetti visivi. Immagini studiatamente sovra- o sottoesposte, accanto a sequenze ben bilanciate sul biancodi un freddo invernale e sempre a fuoco, creano un contrasto drammatico. Parlo della fanciullezza a cui allude il sottotitolo, ma anche quello di un panorama rigoroso solo nelle sue manifestazioni formali.
Il nastro bianco del titolo allude a un monito di innocenza e purezza: non un simbolo, ma una condotta da tenere, una speranza per il futuro in un mondo periferico e corrotto nelle sue fughe nel buio, alle soglie del primo conflitto mondiale. Un barone dispotico, interpretato dall'eccellente Ulrich Tukur (di cui già ho parlato su questo blog per Bonhoeffer e La vita degli altri), vi detta il bello e il cattivo tempo, mantenendo sempre una flemma da leader e guidando il suo mondo attraverso uno spiccato immobilismo. Un pastore protestante severissimo (Burghart Klaußner, il padre di Alex in Good Bye, Lenin!) lo accompagna in quest'avventura di soprusi, un avvicendarsi di festività religiose e sacramenti amministrati agli occhi di popolani che non comprendono e non sanno reagire, e che pertanto sono ben rappresentati dai loro bimbi e dai loro adolescenti inquieti, tra occasionali ordalie e in una realtà che si va sgretolando e riempiendo di crepe e di mistero.
Il regista Mikael Haneke, celebre presso il grande pubblico per l'acceso La pianista (2001) e per l'atroce Funny Games (2007), ha scritto la "luce" con un'eleganza che si riscatta anche di quei passaggi esteticamente più volti al realismo che alla "classica" armonia della composizione. Direi tuttavia che, come sceneggiatore, ha abusato della naturale evocatività delle sue cartoline in sequenza di un mondo sepolto dalla neve. Alcuni personaggi ondeggiano tra l'inspiegabile protagonismo (in primis il sordido Dottore di Rainer Bock), a meno che non li si evochi nel consueto cliché del dietro-le-quinte; altri, e penso soprattutto al narratore di questa storia, il maestro di Christian Friedel, si mostrano in taluni destituiti del loro ruolo, come se avessero perso il peso sociale insieme al nome.
Se c'è una cosa che manca, a Il nastro bianco di Mikael Haneke, nel trascinante e ineluttabile frapporsi di vuoti, di giorni, di anni trascorsi, mi sembra appunto l'equilibrio nel tempo della storia e tra singole storie e comunità periferica isolata da capitali e città: è anche possibile che questa sia una scelta voluta, per alludere alla disgregazione umana e sociale, ma il risultato estetico-narrativo mi si presenta inferiore alle attese. Tutte queste storie rimangono inghiottite nella memoria, a suo dire, poco fededgna di un fuggitivo, di un uomo che non avrebbe più fatto ritorno in una comunità che lo aveva ospitato, ma alla quale continuava a rimanere estraneo. Tuttavia, paradossalmente, proprio questo riscatta in qualche modo Il nastro bianco dal mero gioco estetico di chi vuole giocare con la bellezza delle immagini: non il film è in bianco e nero, ma quelle memorie scolpite in un mondo che non c'è più, spiazzato dal vermiglio mare delle guerre e di una modernità postfeudale.
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