Il Natale dei poveri

Creato il 26 dicembre 2011 da Cultura Salentina

di Lucio Causio

Teresa era una bambina che tutti gli anni quando ritornavano le feste di Natale si rifaceva la stessa domanda:

 “Che cosa fa la povera gente il giorno di Natale ?”.

Non era una preoccupazione assillante e neppure una caritatevole sollecitudine, ma appena un’ombra che appariva e scompariva nella letizia della sua festa, presto cancellata per istinto infantile ed egoistica difesa. Per lei, Natale significava la casa ben chiusa e calda; la calma e la serenità che hanno le giornate quando i bambini non vanno a scuola e i grandi non vanno in giro per i loro interminabili vagabondaggi. Per lei, il Natale era un separarsi da tutto ciò che non è strettamente casalingo; un ritornare delle persone lontane al ceppo, un ritempramento dei legami del sangue alla sorgente, dopo la dispersione di tutto l’anno dietro la necessità quotidiana. La festa non le pareva festa fuori delle mura di casa, salde e fidate: e che cosa hanno i poveri ? – si chiedeva.

La bambina non lo sapeva, ma cercava d’immaginarlo: vedeva le figure cenciose appiattirsi agli angoli delle vie, o errare lungo i marciapiedi a passi striscianti, e le pareva che neppure la notte potesse offrire a quelle creature abbandonate la clemenza di un letto in un asilo con la porta chiusa.

Forse avevano giacigli di stracci in soffitte dove fischiava il vento e gocciolava la pioggia, e raccogliersi là dentro era più triste e duro che non andare in giro per le strade.

Allora dov’era il Natale dei poveri ?

Dopo alcune riflessioni, concluse che i poveri non hanno Natale: e questa privazione del giorno più bello, dell’unico giorno che appagasse interamente il suo cuore di bimba, le appariva più grave e più ingiusto che non la privazione stessa del pane quotidiano.

Il tempo passò. La bambina crebbe. La conoscenza della festosa liturgia di Natale non fece che accrescere la penosa sensazione di abbandono della massa oscura dei diseredati in quel giorno di festa.

Cominciava la grande Vigilia del Natale. Il giorno dopo sarebbe scomparsa l’iniquità della terra ed avrebbe regnato fra noi il Salvatore del mondo. Ma l’iniquità della fame e dell’abbandono avrebbe continuato a gravare come ogni altro giorno sulla moltitudine dei derelitti ? Il cuore amaro dell’adolescente spiava sotto il coro degli Angeli e degli uomini in chiesa il gemito soffocato della miseria.

E il tempo passò ancora. La bambina fatta donna diventò mamma, ed ebbe un bel bambino sprofondato nella culla bianca e azzurra, come un angioletto fra le nuvole.

Venne Natale: accanto a questa piccola creatura si raccolse la festa della famiglia; più lontana, solitaria e abbandonata, alla giovane mamma parve raccogliersi anche la miseria senza focolare.

Inutile pensare alla povertà della capanna di Betlemme: fregi di danze angeliche la sormontavano, splendide luci raggiavano dalle sue mura come se vi scintillassero a gara tesori di tutto il mondo, uomini ed animali prostrati in folla le facevano pavimento di tutta la vita della terra.

No: ricchezza più splendida, potenza più alta non era apparsa mai nel mondo: troppo il divino soverchiava l’umano perché il Presepe parlasse agli uomini nella sua umile domesticità.

E la domanda infantile restava fissa come un rimorso nella festa della bambina diventata mamma.

Fu il suo bambino nella culla a farle intendere quel che ancora le era rimasto nascosto.

Quante volte, non ancora mamma, aveva letto il Vangelo di Luca ? Ora leggeva accanto alla culla mentre il suo piccolo annaspava placido tra i cuscini: “Si compì per lei il tempo del parto, e partorì il suo figliuolo, e lo pose in una mangiatoia”.

La mamma terrena vide la Mamma divina levarsi nel fondo buio della grotta, dove aveva dato alla luce il suo bambino; la vide avvolgere nei grossi panni da viaggio il corpicino tenerissimo, piegarsi e deporlo nella culla improvvisata; subito le sue mani rabbrividirono, le sue mani avvezze, nello stesso gesto, alla morbida carezza dei cuscini, come, sfregate dagli steli secchi della paglia.

Nel fastoso tripudio della capanna natalizia, sotto la corona dei voli angelici, nella raggiante gloria del Redentore, le apparvero le mani di Maria, graffiate e punte dalla paglia della mangiatoia, le povere mani trafitte dalla pena del misero giaciglio preparato con tanta umana angoscia al figlio divino. La mamma terrena ne ebbe gli occhi pieni di lacrime.

Tutto non era dunque tripudio e gloria nella grotta risplendente di Betlemme; nella gioia trionfale della Venuta di Gesù, grandeggiava questo taciuto dolore, umano ed umile, questa mortificazione, questa miseria di madre, uguale alla miseria di tutte le mamme che cercano invano aiuto alla miseria dei figli.

Il tempo passò ancora: oggi la mamma guarda con animo tranquillo i suoi figliuoli che preparano a Gesù bambino una capanna ridente, verso cui accorrono per prati e boschi pastori, greggi, e un corteo di re ancora lontani sui monti.

Ormai la mamma sa che la Vergine Madre non fa parte della lieta compagnia. La vede andarsene, col bel manto azzurro stretto nel suo silenzioso dolore, oltre le porte scardinate e scosse dal vento, accanto ai giacigli di stracci, agli angoli gelati delle vie, lungo le mura delle case dove festeggiano il Natale.

Ora la mamma sa che l’esclusione dalla festa universale non è la più dura delle pene; la povera gente non le appare più abbandonata nel giorno di Natale, perché sa che in mezzo a loro sta nascosta Maria.


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