Il nero della guerra contro i colori della vita: Lucia Goracci racconta la sua Kobane

Creato il 17 giugno 2015 da Addamico @addamico

“Dentro Kobane” è il titolo del documentario presentato pochi giorni fa a Firenze, in occasione del Festival del Viaggio, da Lucia Goracci, inviata di RaiNews24.

Da oltre un anno, la giornalista italiana è impegnata a raccontare la guerra che l’ISIS ha dichiarato all’Occidente (ma non solo), un conflitto che bussa alle porte del mondo 2.0., progressista e visionario, con metodi da età della pietra.

Il giornalismo a cui ci ha abituato Lucia Goracci restituisce la cronaca di questo terribile scontro, ma è anche capace di farci sentire al fianco di uomini, donne e bambini a cui in questi mesi è stato sottratto tanto, persino i colori della vita, quelli che noi chiamiamo “cultura”.

E iniziamo proprio da lì:

Lucia, perché la guerra ‘fa la guerra’ alla cultura?

La guerra a cui mi è capitato di assistere, lanciata un anno fa dallo Stato Islamico occupando Mosul, è una guerra al pluralismo di identità. Tutto quello che rappresenta pluralismo sul piano culturale è stato dichiarato nemico da abbattere.

Solo pochi giorni fa la BBC ha trasmesso un video girato coraggiosamente con i telefonini e fatto arrivare clandestinamente nei campi profughi. Un documento di straordinaria efficacia che ci racconta come, per esempio, le case dei cristiani a Mosul (una comunità di 60mila persone) siano state marchiate in nero con la “N” di Nasrani  e dichiarate di proprietà dello Stato Islamico.

Una prassi che ci ricorda quanto facevano i nazisti sulle case degli ebrei. Un’atmosfera di cupo terrore dove persino i pastelli colorati sono stati banditi, come se il mondo a colori dovesse essere vietato per lasciare spazio solo al nero della bandiera del Califfato.

Un nero che esprime chiusura e intolleranza…

Mentre l’umanità è meticcia, variegata, polifonica in tutte le sue manifestazioni culturali. Ecco perché abbattere la molteplicità delle razze e delle fedi religiose è diventato una regola nelle aree in cui lo Stato Islamico è penetrato e governa. Un potere esercitato contro i cristiani, gli yazidi, ma anche contro gli sciiti e tutti quei sunniti che pur essendo convergenti come fede religiosa con l’ISIS, non si identificano nel suo progetto totalitario.

Perché di totalitarismo si sta parlando e che ha tra le sue vittime anche la memoria. Perché, se è vero che è in atto un terribile genocidio, è altrettante vero che l’ISIS sta portando avanti un vero e proprio memocidio. Perché la memoria è anch’essa meticcia, fatta di stratificazioni culturali sedimentate nel corso dei secoli che devono essere rese “Ground Zero”. In questo contesto non c’è possibilità di pensiero diversa da quella dello Stato Islamico.

Due immagini simbolo di cultura assediata e che resiste a cui sei rimasta legata?

Un’immagine è quella dell’Istituto di cultura di Kobane, occupato dall’ISIS e trasformato in un fortino, così come tanti altri edifici scolastici diventati strategici perché disposti su più piani. Quando sono arrivata a Kobane era stato appena ripreso dai curdi dello Ypg (le Unità di protezione del popolo). Un’immagine di devastazione e di annichilimento della cultura che ho ritrovato anche nei tanti libri ammassati e bruciati per le strade di Kobane.

Mentre, come immagine di cultura che resiste, sicuramente non c’è niente di più bello della scuola ricavata negli scantinati dei palazzi di Kobane. Qui un gruppo di ragazze curde avevano deciso di rimpiazzare le anziane maestre, allontanate dalla città per la guerra, e organizzare delle classi con i bambini rimasti isolati con le loro famiglie.

In questi scantinati, gli unici luoghi sicuri di Kobane e dove c’era un freddo cane, i bambini riprendevano in mano di nuovo quaderni e matite e, cosa molto commovente, erano finalmente liberi di declinare la storia a modo loro.

Quale pensi possa essere il futuro del Medio Oriente e della sua cultura, magari tra cinque anni?

Temo che cinque anni siano pochi per porre fine a questa guerra.

Quello che mi sento di poter e di dover dire è che devono essere queste popolazioni a reagire. Quello che sta succedendo in Medio Oriente è anche frutto di una visione distorta del ruolo dell’Occidente. Nel 2003 gli USA di George Bush Jr bombardarono l’iraq con l’idea di portare la democrazia attraverso un’operazione militare con i risultati che oggi abbiamo sotto i nostri occhi.

Credo sia arrivato il momento di non ricadere nello stesso errore. Noi occidentali possiamo esserci, appoggiarli e aiutarli rendendo noto al mondo quanto sta succedendo in questi luoghi. Ma dovranno essere loro a formare gli anticorpi per ribellarsi a questa realtà.

Io conto molto sulle popolazioni sunnite dell’Iraq e della Siria; molte di loro per ragioni contingenti hanno sperato che l’avanzata dell’ISIS potesse riportarle culturalmente e politicamente sulla scena dalla quale erano state espulse nel dopo Saddam.

In realtà sono diventate le prime vittime di questo totalitarismo, che non vuole fare altro se non espellere dalla società il diverso: che sia donna, omosessuale, o una minoranza religiosa.

Io sono convinta che dobbiamo essere presenti con una rete di informazione, e anche con un’azione di riarmo delle popolazioni, ma che devono essere loro ad agire. I progetti neocoloniali che puntano a rovesciare un regime, senza progettare il dopo, sono estremamente rischiosi e non producono risultati positivi.

La più grande arma della cultura contro la guerra?

L’informazione. In questo contesto l’informazione gioca un ruolo cruciale. E’ prioritario non cedere al black out informativo che l’ISIS impone e, soprattutto, non diamo spazio al suo storytelling. Non lasciamo che sia l’ISIS a raccontare quello che sta accadendo in quelle aree. È estremamente difficile e rischioso, ma dobbiamo continuare a esserci.

E poi ammetto che trovo molto divertenti i video satirici che il mondo arabo sta producendo sull’ISIS. Mi viene in mente un bellissimo video di satira palestinese che fa la parodia dell’ISIS e che trovo particolarmente intelligente. Sono sempre un po’ scettica sulla satira che assume connotazioni offensive, anche se la libertà di pensiero è sacra e non va discussa, ma preferisco la satira che sa parlare senza offendere il mondo musulmano realizzata proprio da voci musulmane.

Il detto una risata ci seppellirà, mi auguro sia sempre valido.

E’ l’augurio di tutti noi! Grazie Lucia


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