Il nocciolo (fuso) della questione
Creato il 24 marzo 2011 da Ilgrandemarziano
Quello che c'è in giro in questi giorni non si può chiamare il "nucleare". Chi lo fa, sbaglia. E questo significa che sbagliano tutti. Sia i sostenitori, che si sentono defraudati di qualcosa, del sogno impossibile dell'onnipotenza elettrica, dell'illusione di un'immagine vincente da spendere in campagna elettorale, di un orizzonte rosato profilato di guadagni e mazzette; sia i detrattori che finalmente sentono di poter allargare il petto, alzare il mento e dire, con quella faccetta un po' antipatica da primi della classe: «Lo dicevo io!» No, tutti quanti sono in errore. Perché quello cui tutti fanno riferimento in questi giorni tristemente nipponici, non è l'amato-odiato "nucleare". Così, nudo e crudo come una barra d'uranio lasciata scoperta. No. Quello che c'è in giro adesso è come il risultato di una mutazione genetica dell'originale, un isotopo ontologico derivato dalle stesse radiazioni di Fukushima. Si chiama "nucleare emotivo". Ed è qualcosa di molto diverso per tutti.
Di fronte a un pianeta sempre più affamato di elettricità, prendere decisioni drastiche e definitive su un programma energetico che da un lato prevede montagne di soldi di investimenti, e dall'altro coinvolge migliaia e migliaia di lavoratori e comporta anni, se non addirittura decenni, di cantieri, a fronte di una catastrofe epocale come quella giapponese, è un'autentica sciocchezza. Come chiedere a una ragazza di sposarla al primo appuntamento, solo perché ve l'ha data, o come chiedere a un ragazzo di sposarlo al primo appuntamento, solo perché non ve l'ha chiesta. Non ci vuole Sigmund Freud per capire che quelli non sono momenti di lucidità, che si perde il lume della ragione. Sono indicazioni, su questo non c'è dubbio. E devono contribuire a innescare una riflessione. Ma è meglio sedersi e aspettare un attimo che cali l'adrenalina prima di saltare alle conclusioni che possono cambiare il volto a una generazione, in meglio, certo, ma anche in peggio.
«È illogico», direbbe il mio amico Mr. Spock facendo lievitare un sopracciglio, mettersi tutti lì in piazza, con i cartelli scintillanti e gli slogan in canna, a condannare il nucleare solo sulla base di una catastrofe. Fino a un millisecondo prima dell'abbattersi dello tsunami non andava forse tutto per il meglio (o no?)? Le procedure di sicurezza non erano ok (o no?)? C'erano pericoli (o no?)? Chernobyl non era un incubo ormai superato (o no?)? Il nucleare di oggi aveva qualcosa a che vedere con quello di venticinque anni fa (o sì?)? Senza contare tutta la sabbia che ti va negli occhi quando senti parlare della famosa III Generazione di reattori (politicamente?) supersicuri. Ma anche la III+, per chi ama la comodità senza rinunciare all'estetica, e perfino la IV, quella più prosperosa, magari anche un po' imbottita, che non guasta mai, sebbene disponibile solo tra dieci o vent'anni, ma ne vale la pena. Non ci vuole dunque Marie Curie per capire che la "moratoria" di un anno sul nucleare (ovvero per 12 mesi pensiamo ad altro e lasciamo passare così lo tsunami emotivo che offusca i nostri giudizi) è un'emerita sciocchezza proposta a fini esclusivamente strumentali, visto che c'è un referendum di mezzo e si sa che non c'è come un'emozione a mettere 'l pepe al cul dell'elettore. Anche perché le considerazioni (serie) sul nucleare che potremo fare tra un anno, non saranno diverse da quelle (serie) che possiamo fare oggi. Dunque proviamo a farle subito e leviamoci il pensiero.
Poiché del nucleare è l'aspetto della tutela e dell'incolumità che sgomenta più d'ogni altro, è opportuno partire facendo qualche riflessione in merito all'ambiguo e fantomatico concetto di "sicurezza". Ebbene, è presto detto: la "sicurezza" non esiste. È una chimera, un miraggio, una figura mitologica nell'olimpo dell'ingegneria applicata (che poi non vale forse la stessa cosa nella vita?). Non c'è niente di sicuro. Ciascuna applicazione tecnologica, rispetto al proprio ambito, ha il suo grado di insicurezza, ovvero la sua possibilità di fallire. Tutto quello che si può fare è minimizzarne il rischio, cosa che si traduce nell'abbassare il più possibile una probabilità statistica. E questo dovrebbe valere tanto più, quanto più il fallimento di una tecnologia si traduce in un pericolo (grave) per la vita e l'ambiente. Quindi diffidate di coloro che se ne vanno in giro a dire che la tale cosa «è sicura». Mentono. La sicurezza è un concetto compromissorio mediato dalla probabilità. Per esempio nei reattori di terza generazione, l'obiettivo in termini di sicurezza è avere un reattore che, secondo il calcolo teorico, presenti un guasto al reattore con un danneggiamento grave del nocciolo "meno di una volta ogni cento milioni di anni". Che magari per molti può essere considerato accettabile (e qui sta il compromesso), ma che non significa mai. E qual era il rischio statistico stimato per Chernobyl o per Fukushima? In che misura questi calcoli tenevano conto, oltre che delle possibili avarie tecniche dei componenti, di tutte quelle variabili non facili da valutare come errori umani o - appunto - eventi naturali catastrofici, o meglio ancora, la possibile concatenazione incidentale di tutti questi fattori?
/continua (domani)
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