Il nome del figlio: Francesca Archibugi oltre il remake

Creato il 26 gennaio 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Il nome del figlio di Francesca Archibugi va oltre il remake, rivedendo il film “di partenza” con una freschezza di sguardo inaspettata.

Ammetto che quando ho saputo che Francesca Archibugi aveva fatto il remake di Cena tra amici (Le Prénom) dei francesi Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, la cosa mi ha deluso, e non poco. Perché ritenevo l’Archibugi una delle migliori sceneggiatrici e registe italiane, come confermato nel 2009 dal bellissimo Questione di cuore. Che dopo cinque anni tornasse al cinema con un film “non suo”, mi lasciava l’amaro in bocca e crucciare su come oggi non abbiamo più idee per creare pour le cinéma qualcosa di “originale”. Poi ho visto Il nome del figlio. E la mia idea è cambiata.

Perché Il nome del figlio di Francesca Archibugi va oltre il remake, forse non è neppure catalogabile come remake. Prende sì pari pari il plot della pièce/pellicola francese, non alterandolo minimamente nei punti chiave, ma lo arricchisce, in un certo senso lo rielabora, facendone quasi un film a sé, svincolato dal “padre”. Ne è sì figlio, ma un figlio che vuole scappare di casa e diventare grande, autonomo e indipendente prima del tempo.

L’Archibugi rivede il film “di partenza” con una freschezza di sguardo inaspettata, rimuovendo la teatralità e il fascino discreto della borghesia francese e sostituendolo con il meglio dell’italianità possibile, con quel brio, quella simpatia e quella sana caciara che solo noi italiani possediamo. E vi aggiunge una finestra sul passato che a noi piace sempre tanto, soprattutto quando sconfina nei tempi dell’infanzia, con la casa al mare, il sole e le smanie della villeggiatura. Uno sguardo al passato declinato non solo in una serata tra amici che condensa, tra revisionismi storici e progressismi zoppicanti, un bel pezzo di Storia italiana, ma anche nel saper inserire schegge di gusto da commedia all’italiana (su tutti La terrazza di Ettore Scola). Ma l’Archibugi è brava anche nel ri-elaborare lo sguardo dei bambini (tema caro al suo cinema) tramite la mediazione di una videocamera, alludendo e omaggiando quanto già fatto ne Il più bel giorno della mia vita da Cristina Comencini. Se la piccola Chiara nel film della Comencini immortalava la sua famiglia disastrata in un momento fintamente felice, Pinna e Scintilla nel film dell’Archibugi osservano la loro famiglia “allargata” in un momento realmente tragico.

Francesca Archibugi ha inoltre la capacità di realizzare una delle sequenze musicali più genuine del recente (ma non solo) cinema italiano. Sceglie quella poesia in musica di Telefonami tra vent’anni di Lucio Dalla e la elegge ed erge a specchio malinconico e vivido di un’amicizia. Caso raro nel cinema, ci fa ascoltare tutta la canzone, mentre i protagonisti ci cantano e ballano sopra come solo (forse) in un film di Nanni Moretti.

Dulcis in fundo, chiude il “suo” Il nome del figlio confondendo cinema e vita. Il parto di Simona è il parto di Micaela Ramazzotti, perché la bambina che nasce è sua figlia, Anna Virzì. Un finale reale per un film che ha un’impressione di realtà altissima. Un leggero e magico inno alla vita, alla famiglia, all’amicizia, al piacere di stare insieme come solo il cinema (nel senso stretto di sala cinematografica) sa fare.

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