“Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud: alla radice di un mito che non smette di appassionare

Creato il 25 febbraio 2016 da Alessiamocci

“Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno del Signore 1327. Che Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto allora avvenne in un luogo remoto a nord della penisola italiana, in una abbazia di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome.”

Questo il suggestivo incipit del “film di Jean-Jacques Annaud sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco”, quello che l’autore stesso considerava il peggiore dei sette da lui redatti nell’arco degli ultimi 35 anni. Com’è allora che questo quarto lungometraggio di Annaud, vincitore del Premio Oscar per l’opera d’esordio “Bianco e nero a colori” (1976) e recentemente al cinema con “L’ultimo lupo” (2015), rimane un simbolo culturale che inequivocabilmente in tanti possono invidiare per l’immediatezza con cui si riconduce alla memoria il talentuoso soggettista che vi sta dietro? Come mai, nonostante siano passate ormai tre decadi dalla sua uscita e se ne stia necessariamente appressando un impegnativo restauro, questo thriller medievale non smette di affascinare e raccogliere ammiratori?

Senza dubbio, in primo luogo si pone la fortuna de “Il nome della rosa” romanzo, autentico best-seller pluripremiato ed apprezzatissimo anche tra la critica nazionale ed internazionale; il padre letterario di “Arancia meccanica” a suo tempo osservò come si fosse rivelato felice e meritato quel connubio fra alta qualità e successo di pubblico. La sorte ha sorriso ancora sul finire degli anni ’80, quando venne tenuta a battesimo la relativa, lunga tradizione delle riproposizioni televisive su suolo italiano: la prima visione raccolse su un solo canale più della metà degli spettatori quella sera sincronizzati sugli schermi a tubo catodico. E quale programma hanno trasmesso in prima serata sul terzo canale il giorno dopo la morte del nostro?

Al di là della palese economia dei numeri, sempre efficacie nell’influenzare i palinsesti tendenzialmente a sfavore di una certa ben più (in potenza) apprezzabile qualità artistica, decisamente più sfortunata in quanto svilita generatrice di tendenza, il valore di questo contributo della settima arte risiede con evidenza nella capacità di plasmare un’atmosfera d’ambiente tenacemente perdurante.

L’osservazione può cominciare dalle tinte della fotografia, la quale si dimostra attenta ad applicarsi alle geometrie architettoniche esaltandone i chiaroscuri, specie quando si tratti di quelle insolubilmente intricate della biblioteca, per quanto appena accennate, a motivo del loro esser lungi dalle possibilità e dagli opportunismi tecnologici della contemporaneità, e quando si abbia da impressionare l’oscurità degli interni, in particolare dello scriptorium, della mensa, della cucina, delle catacombe e degli altri diversi anfratti segreti, la cui esplorazione è spesso accompagnata da un sonoro riverberato e ombroso.

Più d’uno ricorda la crudeltà inaspettata di alcune sequenze dal retrogusto horror, come quella in cui si assiste in rapporto ravvicinato allo sventramento di un maiale, o quella che illustra il secondo ritrovamento, ossia la scoperta di un altro giovane monaco passato a miglior vita affogando nella giara ricolma di salamoia ustionante, o ancora magari possono dimorare a lungo nella mente i rigurgiti verdastri causati dal graduale processo di avvelenamento e quindi di combustione cui il vecchio Jorge da Burgos si abbandona nei suoi ultimi minuti di vita. Qualcun altro, dall’orecchio più fine, potrà anche apprezzare l’eloquente accompagnamento sonoro firmato James Horner, il quale sovente fa largo uso di sintetizzatori in vece dell’orchestra propriamente detta, facendone scaturire singolari rimandi e sensazioni.

Ci si deve perciò soffermare con dovizia sulla riuscitissima opera di casting cui la produzione ha messo mano: alla distinta qualità attorica in sé s’accompagna per l’appunto una componente che va ad alimentare vividamente l’impatto visivo del prodotto, in parte dote naturale, in parte merito del trucco invecchiante del misconosciuto Hasso von Hugo. Gli interpreti incarnano pienamente le ricadute sociali relate all’immaginario medievale cupo e invertito che lo scrittore poteva con dichiarata curiosità visionare già nell’atto creativo.

Dalla pulizia mentale ed esteriore di Guglielmo da Baskerville, ruolo per cui Sean Connery vinse il suo primo BAFTA, ci si accosta con facilità alla luminosa giovinezza di Adso da Melk (Christian Slater), sempre teso all’apprendimento delle arti sapienziali del proprio maestro, al riconoscimento delle tentazioni mefistofeliche, così come alla difesa dell’innocente povera ragazza senza nome (impersonata dall’avvenente e provocante cilena Valentina Vargas).

I due villain principali si riconoscono nell’imperturbabilità dell’inquisitore Bernardo Gui (affidato con trionfo a F. Murray Abraham), morto in realtà quattro anni dopo i fatti narrati nel film, e nel personaggio del venerabile Jorge (rimesso all’arte di Fëdor Šaljapin Jr., figlio del celebre basso russo), il vegliardo spettrale solo all’apparenza gracile e decadente, un uomo che sopperisce alla sua quasi totale cecità, resa evidente dagli occhi vitrei sempre spalancati, con il fiuto e l’astuzia che allegoricamente sarebbero propri di una donnola, estremo custode degli enigmi aristotelici, timoroso più dell’insensatezza cui induce il riso che della giustizia divina.

Nella nutrita schiera di caratteri secondari che affolla il susseguirsi degli episodi, troviamo l’erborista Severino (Elya Baskin), la cui parallela passione per le ispezioni cadaveriche traspare chiaramente in più momenti attraverso un corredo di ghigni illuminati di curiosa sfrontatezza, l’ostile bibliotecario Malachia (Volker Prechtel), cui peraltro era assai affezionato Jorge, che possiede vagamente le sembianze di un avvoltoio per via della sua tonsura insistentemente puntuta; ancora, Ubertino da Casale (William Hickey), figura appartenente alla storiografia del reale, a metà via fra santità, profezia ed eresia, provvisto di un volto non a caso più luminoso degli altri, sebbene di certo non meno contrito, sconvolto com’è alla percezione del Maligno che agisce indisturbato nell’abbazia, e Berengario (Michael Habeck), gonfio, calvo, pallido, con un’accennata tendenza alla pederastia ed efficacemente caricaturale nel suo acuto affannarsi per ogni sorta di attività.

Uno spazio indipendente va riservato a Salvatore (Ron Perlman, in fase di pre-produzione sostituito da Franco Franchi), frate deforme e avernale, un Tersite scimmiesco del XIV secolo, letteralmente posseduto dall’attrazione per la dottrina dolciniana che condivide con il cellario Remigio da Varagine (Helmut Qualtinger), venendo noi a conoscenza dei fatali problemi di alcolismo del quale si è fortemente tentati di addurre un tale disturbo come fattore determinante alla di lui poco rassicurante presenza scenica ed alienata espressione del volto. Merita una citazione anche il cardinale Bertrand (Lucien Bodard), incarnazione perfetta dell’ampollosità e del peccaminoso distacco del clero di allora, costantemente avvolto in ampie vesti che vogliono nascondere un ammasso di carne ancora più esteso.

“Il nome della rosa” film ovviamente si giova anche delle tensioni che stanno all’origine del mood distintivo della trama originale: fra massime ironiche e sottili dissertazioni filosofiche, si ha modo di trattare di una tematica così fulgida come l’apocalisse, la quale sembra si stia manifestando, flagello dopo flagello, come avevano anticipato le veementi denunce di Ubertino, costretto all’esilio poco prima del suono delle “ultime trombe” e della risoluzione dei misteri. Forse non possiamo considerare a tutti gli effetti un epilogo grandioso e devastante la stessa perdita dell’inestimabile patrimonio contenuto in quella remota arca della scienza che, fra i tanti libri messi all’indice, conteneva anche l’ultima copia del così a lungo speculato volume della Poetica aristotelica dedicato alla commedia?

È pur sempre agevolmente asseribile che per quanto la presente sia identificabile come un’opera di fantasia, pure nella messinscena della testimonianza d’epoca affidata ad ordinate macchie d’inchiostro su una pergamena (arrivata tra le mani dello stesso Eco, come spiegato nel romanzo), parimenti piace pensare che le vicissitudini raccontate possano godere di un fondo di verità, plausibile e al tempo stesso definitiva interpretazione di una crux filologica destinata a rimanere avvolta in un eterno, arcano alone di indeterminatezza, come è peraltro accaduto a tanti altri scritti di autori pregevoli di cui non si conservano più nemmeno i frammenti.

Volendo in chiusura inserire un’osservazione estetica di squisita limpidezza, è altresì concretamente riscontrabile come il montaggio, nello specifico, sappia rivelarsi a tratti malcelatamente didascalico, corrivo, non di rado accompagnato da un susseguirsi di zoom che, alla peggio, possono ricordare alcune produzioni di serie B anni ’70, di quelle che si accontentavano di proporre ad un non fine pubblico costruzioni narrative assolutamente lineari, prevedibili, regolari. Caratteristiche, è lapalissiano, assolutamente avulse dalla sempreverde ideazione del nostro compianto autore di “Primo e secondo Diario minimo”, “Apocalittici e integrati”, “Come si fa una tesi di laurea” e “Kant e l’ornitorinco”. Nel caso qualcuno infine volesse proprio sapere quale possa essere il mio retto giudizio a riguardo, affermo e confermo che “Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud si pone a quota tre stelle e mezzo.

Voto al film

Written by Raffaele Lazzaroni


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