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Sabato 23 marzo 2013
CAMMINARSI DENTRO (465): Il non vissuto che ci accompagna
Forse il momento della consapevolezza più grande fu quello dell’estate del 1967, quando mi ritrovai – superato l’Esame di maturità – a dover scegliere. Era la prima volta. Fino a quel giorno, avevo visto scorrere la vita senza inciampi. Nessun blocco, nessuna esitazione. Trascorsi l’estate su I fratelli Karamazov e ne uscii prostrato, senza fede, ormai. Con il compito non facile della scelta universitaria di fronte. In realtà, avevo poche chances, perché mi sentivo da anni votato all’insegnamento, ma quando non si sia superata ancora la linea d’ombra, tutte le possibilità possibili si affacciano alla mente e ci piace baloccarci con l’idea che siamo liberi e che intendiamo restare tali, cioè mantenere aperte tutte le possibilità. Continuai ad arrovellarmi fino al momento della partenza per Roma, con i documenti ancora incompleti: mancava il nome della Facoltà universitaria. Nell’Ufficio postale di Piazza Bologna, sul bollettino dei versamenti, invece di scrivere Lettere, scrissi Filosofia. Decisi proprio lì, in quel momento. Anche successivamente, dissi a me stesso che scegliere Filosofia era non scegliere ancora: si trattava di una sorta di passaggio propedeutico a tutte le altre scelte. Immaginavo, come tutti i miei coetanei, che fosse tutto possibile, che si potesse scegliere tutto. Mi angosciava il pensiero che, una volta fatta la scelta definitiva, non sarebbe stato più possibile tornare indietro, al di qua del bivio su cui mi sembrava di essere accampato, per imboccare un’altra delle tante direzioni che mi ostinavo a tenere ‘aperte’. In realtà, era solo la mia mente che si avviluppava nei ragionamenti segreti intorno al da farsi, perché per la prima volta ne andava della mia vita. Io non volevo prendere decisamente la strada che dall’età di dodici anni, avevo visto chiara davanti a me: l’insegnamento. Mi sembrava che la vita offrisse molto di più. Non capivo perché la vita mi mostrasse molto di più, se io avevo già deciso cosa fare, considerato che il mio cuore non aveva dubbi su ciò che desiderava.
Successivamente, chiamai libertà il grumo di emozioni e stati d’animo che si rincorrevano disordinatamente, sotto la spinta di una mente che non cessava di vagliare ogni aspetto della situazione. Subito dopo la pubblicazione dei ‘quadri’ della Maturità, avevo avvertito violentemente la sensazione che gli spazi chiusi erano finiti, dissolti ormai. Avevo davanti a me una dimensione sconosciuta, senza confini. Era inebriante, ma faceva male al cuore. Era quella una linea di confine tra due tempi della mia vita? Ero felice di essermi liberato delle infinite costrizioni della scuola, ma lì mi sentivo anche al riparo. Al riparo da cosa? Perché avrei dovuto sentirmi in pericolo? Se di libertà si trattava, perché averne paura? Solo molto tempo dopo, imparai con Leopardi a dare un nome a quel sentimento misto che era già proprio della vita adulta: il timore che accompagna sempre la speranza.
Gli studi classici mi avevano abituato a ragionare in termini di libertà/necessità, come se la libertà si stagliasse sempre di fronte a quello che credevo il suo contrario, cioè la necessità ferrea di ciò che è come è e non può essere altrimenti. In realtà, la libertà ha di fronte a sé il nulla. L’angoscia che l’accompagna proviene dal chiaro avvertimento di quel nulla in cui ci ritroviamo tutte le volte che siamo messi di fronte a una scelta. Ero libero, per la prima volta. Ma non lo sapevo. Provavo soltanto un misto di paura e felicità.
L’arrivo all’Università fu accompagnato da un checkup riservato a tutte le ‘matricole’. L’internista mi trovò rigido, teso, al punto che si irritò con me, perché non riuscivo a rilassare la muscolatura addominale. Mi spedì dallo Psichiatra, che mi trattenne a lungo. Questi mi chiese se intendevo proseguire gli studi. Gli risposi sì, non poco perplesso per la sua domanda. Mi descrisse il mio stato di eccitazione, i circoli viziosi in cui si avviluppava la mia mente, i rischi per lo studio… Mi suggerì esercizi per l’igiene mentale e mi raccomandò di farmi una ragazza. Il colloquio fu lungo. Lo ricordo quasi per intero. Mi ritrovai per la prima volta di fronte a qualcuno che sapeva di me, senza avermi conosciuto mai. Il turbamento che mi trasmise non mi abbandonò più, per tutto il Corso di laurea, fino alla discussione della tesi, e oltre. Si trattava di mettere ordine nel cuore, di imparare a fare i conti con la realtà e altro ancora, ma quando si ha la sensazione di avere il vuoto alle spalle, è difficile trovare un terreno solido su cui consistere.
Solo il 1969, con la conoscenza della donna che poi avrei sposato provvide a darmi un po’ di stabilità. Molte cose ancora dovevano succedere, però, perché io potessi dire di aver trovato pace.
Temo che la linea d’ombra non sia solo una linea. Che non si tratti di un confine che si attraversa una sola volta. Le scelte che si succedono nel tempo, ma soprattutto, le conferme e i riconoscimenti sono tanti. E tanti debbono essere, se ci accade di venire dalla ‘provincia’, come era il mio caso, e dal Risorgimento, forse dal Rinascimento, se non dal Medioevo, come sembrava a me di venire.
L’educazione sentimentale ricevuta era fatta di niente: nessuno aveva avuto il coraggio di parlarci di sentimenti. Ci siamo sporti sulla realtà facendoci aiutare dallo studio della Letteratura