Il nostro caro Jester

Da Lerigo Onofrio Ligure @LerigoOLigure
[Chi si ricorda di Jester? Si trattava di un 50 righe particolare, i lettori dovevano indovinare il mestiere del prode Jester, un gioco più o meno azzeccato che non ha visto vincitori, se si esclude Lo Mecenate, a più di due anni dal primo episodio Jester è di nuovo qui. Chi non ha letto la prima parte dovrebbe farlo, se non vuole perdersi la sorpresa!]
P.S. Questa volta il gioco si basa sul titolo, la citazione era di dovere!
Tenevo in mano l’arma gocciolante di sangue, il respiro era affannoso e la vista sbiadita. Sospirai, lasciando uscire il fuoco che sentivo dentro di me e per un attimo tutto il resto perse importanza, ero libero come la mia natura chiedeva e bastava appena il rumore del sangue sgocciolante per farmi considerare vivo. Aprii gli occhi su quel cadavere ancora caldo, l’espressione della mia vittima era sorpresa quanto rassegnata, consapevole che il suo destino fosse segnato già prima di vedermi arrivare. Mi alzai in piedi, la sensazione di benessere mi stava già abbandonando e mentre quella perenne inappropriatezza mi stritolava, la vista tornava a fuoco, il respiro si quietava. Il sangue aveva smesso di sgocciolare. Pensai di dover uccidere altro al più presto, ma non prima di aver messo a posto le cose, d'aver riscosso la taglia per quel cadavere: faceva parte del metodo, metteva ordine nel caos della mia testa e per quello che valeva, i soldi mi servivano per vivere. Infilai il corpo in un telo di plastica nera. Era importante anche quello, ma solamente per un motivo di sicurezza: i miei clienti pretendevano professionalità e nessuna prova che riconducesse a loro, il che voleva dire tenere al sicuro anche me stesso. Trascinai quel bagaglio fino alla mia auto e infilandolo sul sedile posteriore salii in macchina, diretto nel punto in cui quel cadavere sarebbe bruciato, andando ad arricchire l’altoforno della città. Nella macchina il motivetto di una nota canzone dell’anno passato sembrava ammiccare al mio freddo passeggero, dandomi la sensazione che ci fosse uno schema ben definito nell’universo, in cui le prede della mia parte animale si saziavano negli insidiosi prati cittadini. La melodia diventò un brano molto più movimentato, sottolineando che c’era anche un predatore, intento a braccare le sue prede in quegli stessi pascoli. Quel predatore ero io. Fermai la macchina, scaricai il cadavere nel punto appropriato e mi diressi a casa. La vita di un cacciatore di prede umane poteva essere più piacevole della mia, c’era tanto denaro e tanto pericolo da rendere felice qualsiasi altro assassino, ma per me era diverso: io dovevo uccidere e mi piaceva farlo, passavo ore a sentire quello sgocciolare, incurante di ogni altra cosa e appagato come non poteva esserlo nessun’altro. Il tornare alla realtà era come un muro d’acqua che m’investiva, falciandomi in due e mozzandomi il fiato, sentivo il mio corpo piegarsi e stridere come in procinto di frantumarsi in miliardi di frammenti. Tremavo e sudavo come un drogato in astinenza in attesa di una dose sempre meno appagante, l’attesa sarebbe stata una punizione peggiore della morte, ma non potevo fare altro che aspettare e fingere di essere un'altra preda in attesa del proprio carnefice. Quando mi lasciai andare all’oblio del sonno, i tremori erano passati e lo stomaco era di nuovo al proprio posto, il cuore aveva smesso di martellarmi in gola e nei miei pensieri non c’era solo il gocciolare del sangue e l’acciaio intriso del liquido viscoso. Se come dicono, nei sogni la parte più astratta del cervello si mette in moto, per me sognare non era diverso da essere vigile: arazzi decorati intrisi di sangue adornavano sale il cui pavimento cremisi formava una sorta di pozza di sangue lucida, cascate di liquido viscoso si riversavano ovunque ricoprendo ogni superficie di quel mondo immaginario. In un sogno ricorrente il sangue non c’era, la mia figura invece danzava e si prostrava nei modi più assurdi al sovrano della fortezza, coperto da una maschera e da un cappello decisamente meno serioso del mio solito passamontagna. Il Jester di quel luogo sembrava avere poco a che fare con il mio reale bisogno di uccidere: danzava e faceva acrobazie, ma invece di armi imbracciava giocattoli, non sentiva il bisogno di soddisfare i suoi istinti. Eppure sapevo che eravamo la stessa cosa, lo sentivo e lui sentiva me, attraverso le mie palpebre chiuse lui mi fissava, specchiandosi in me come un’infinita ridondanza d’immagini. La mattina dopo i miei occhi si spalancarono, erano a fuoco e le mie mani erano ferme come sempre, mi alzai mentre l’ultimo pensiero del sogno mi lasciava l’immagine dell’altro Jester, facendomi ripensare a quello che avrei potuto fare nella mia vita, se solo non avessi sentito il bisogno di uccidere, di sentir sgocciolare il sangue. Caddi a sedere sulla sedia della mia cucina, il pugnale preferito era ancora sporco, il suo odore di metallo si mescolava a quello del sangue, facendogli avere un sentore di cadavere in grado di riportarmi a quel momento, anche se per un solo istante. Il sangue gocciolante che si univa all’acciaio dell’arma, il mio respiro affannoso, la vista che si perdeva nel nulla di quel momento, mentre l’ultimo respiro di quella vittima sembrava la nota iniziale di un concerto fatto di migliaia di voci. Tutte quelle a cui avevo messo fine.