Fino a venti anni fa era tutto molto più semplice. Si partiva da una specie di scimmione, l'Australopithecus, e in un paio di step - Homo habilis e Homo erectus - si arrivava alla nostra specie, l'Homo sapiens sapiens. Facilissimo. Oggi, però, grazie ai progressi della scienza, le cose sono precipitate, e quelle che erano appena quattro specie antenate dell'uomo moderno sono diventate una ventina. Potremmo farcene una ragione, ma il punto è che non passa anno senza che i quotidiani di mezzo mondo, spulciando qualche rivista scientifica, non tirino fuori per l'ennesima volta, l'inequivocabile titolo: scoperta una nuova specie umana. Fino a quando tutto ciò sarà credibile? E soprattutto, avanti di questo passo quanti prozii dovremo contare per comprendere appieno il nostro cammino evolutivo? Domande che sorgono spontanee all'indomani della notizia diffusa dall'University of Witswaterstrand di Johannesburg, in SudAfrica, e dal National Geographic. Di cosa si tratta? Dei resti di una quindicina di ominini (raggruppamento tassonomico comprendente noi e gli scimpanzé) vissuti fra i due e i due milioni e mezzo di anni fa. In SudAfrica, a una cinquantina di chilometri da Johannesburg. Erano di bassa statura, magrolini, non pesavano più di cinquanta chilogrammi, ma i tratti scimmieschi non erano così preponderanti come nelle cosiddette forme australopitecine (il vero e proprio anello di congiunzione fra noi e le scimmie). Erano più intelligenti degli Australopithecus. Benché possedessero un cervello piccolo, grande quanto un'arancia, la loro attitudine a seppellire i corpi mostra la tendenza al ragionamento, e a regalare un degno riposo ai propri cari, consuetudine nota solo alla nostra specie (e ai neandertaliani). Il luogo del ritrovamento è riconducibile a una specie di piccolo cimitero arcaico, separato dalle zone adiacenti e caratterizzato da resti di individui morti presumibilmente per cause naturali. Alla luce di questi risultati i ricercatori non hanno tardato a riportare l'ipotesi di una nuova specie che fa sempre più rumore del rinvenimento di un "banale" Homo habilis o di un Australopithecus afarensis, entrambi conosciuti da parecchi anni. Ecco dunque il suo nome: Homo naledi (attenzione al rigore scientifico, va maiuscolo il genere, minuscolo la specie). La vera notizia però è un'altra. Ci vorrà del tempo per stabilire se Homo naledi - stella nascente in lingua sotho - è davvero un altro germoglio evolutivo, ma nessuno può negare che proprio in questo frangente sia stato scoperto in un colpo solo il più alto numero di resti appartenenti al genere Homo. In paleoantropologia si urla al miracolo quando salta fuori una nuova falange, un pezzo femore, un occipitale, figuriamoci quando si scoprono le tracce di ben quindici individui, per un totale di 1.500 frammenti ossei. La scoperta è sensazionale. «Homo naledi è già la specie fossile meglio conosciuta nella linea evolutiva dell'uomo», dice Lee Berger, della National Geographic Society, divenuto famoso nel 2010, dopo il rinvenimento dell'Australopithecus sediba, altra "leggendaria" new entry nell'elenco delle specie che ci precedettero.Il SudAfrica. Ecco l'altra vera notizia. Fino a pochi anni fa si pensava che la culla evolutiva dell'uomo fosse riconducibile alla cosiddetta Rift Valley, a cavallo fra Kenya e Tanzania. E' qui che trovarono Lucy, l'Australopithecus afarensis, nonché il più antico antenato dei gorilla, il Chororapithecus abyssinicus. Con le ultime scoperte, invece, il baricentro evolutivo si sta spostando sempre più verso sud, e il SudAfrica pare in pole position nella classifica delle nazioni che ci dettero i natali. Senza andare troppo in là nel tempo, è di pochi mesi fa il rinvenimento nelle grotte di Sterkfontein di un'altra specie battezzata Australopithecus prometheus. Certo, era molto più antica dell'ultima ritrovata, ma è curioso notare che probabilmente visse in contemporanea a Lucy, la mamma di tutti noi. E il futuro della ricerca in campo paleoantropologico parte ancora da qui. «Ci sono centinaia per non dire migliaia di resti da studiare», chiude Berger. E le grotte di Sterkfontein hanno ancora parecchi misteri da svelare.
Fino a venti anni fa era tutto molto più semplice. Si partiva da una specie di scimmione, l'Australopithecus, e in un paio di step - Homo habilis e Homo erectus - si arrivava alla nostra specie, l'Homo sapiens sapiens. Facilissimo. Oggi, però, grazie ai progressi della scienza, le cose sono precipitate, e quelle che erano appena quattro specie antenate dell'uomo moderno sono diventate una ventina. Potremmo farcene una ragione, ma il punto è che non passa anno senza che i quotidiani di mezzo mondo, spulciando qualche rivista scientifica, non tirino fuori per l'ennesima volta, l'inequivocabile titolo: scoperta una nuova specie umana. Fino a quando tutto ciò sarà credibile? E soprattutto, avanti di questo passo quanti prozii dovremo contare per comprendere appieno il nostro cammino evolutivo? Domande che sorgono spontanee all'indomani della notizia diffusa dall'University of Witswaterstrand di Johannesburg, in SudAfrica, e dal National Geographic. Di cosa si tratta? Dei resti di una quindicina di ominini (raggruppamento tassonomico comprendente noi e gli scimpanzé) vissuti fra i due e i due milioni e mezzo di anni fa. In SudAfrica, a una cinquantina di chilometri da Johannesburg. Erano di bassa statura, magrolini, non pesavano più di cinquanta chilogrammi, ma i tratti scimmieschi non erano così preponderanti come nelle cosiddette forme australopitecine (il vero e proprio anello di congiunzione fra noi e le scimmie). Erano più intelligenti degli Australopithecus. Benché possedessero un cervello piccolo, grande quanto un'arancia, la loro attitudine a seppellire i corpi mostra la tendenza al ragionamento, e a regalare un degno riposo ai propri cari, consuetudine nota solo alla nostra specie (e ai neandertaliani). Il luogo del ritrovamento è riconducibile a una specie di piccolo cimitero arcaico, separato dalle zone adiacenti e caratterizzato da resti di individui morti presumibilmente per cause naturali. Alla luce di questi risultati i ricercatori non hanno tardato a riportare l'ipotesi di una nuova specie che fa sempre più rumore del rinvenimento di un "banale" Homo habilis o di un Australopithecus afarensis, entrambi conosciuti da parecchi anni. Ecco dunque il suo nome: Homo naledi (attenzione al rigore scientifico, va maiuscolo il genere, minuscolo la specie). La vera notizia però è un'altra. Ci vorrà del tempo per stabilire se Homo naledi - stella nascente in lingua sotho - è davvero un altro germoglio evolutivo, ma nessuno può negare che proprio in questo frangente sia stato scoperto in un colpo solo il più alto numero di resti appartenenti al genere Homo. In paleoantropologia si urla al miracolo quando salta fuori una nuova falange, un pezzo femore, un occipitale, figuriamoci quando si scoprono le tracce di ben quindici individui, per un totale di 1.500 frammenti ossei. La scoperta è sensazionale. «Homo naledi è già la specie fossile meglio conosciuta nella linea evolutiva dell'uomo», dice Lee Berger, della National Geographic Society, divenuto famoso nel 2010, dopo il rinvenimento dell'Australopithecus sediba, altra "leggendaria" new entry nell'elenco delle specie che ci precedettero.Il SudAfrica. Ecco l'altra vera notizia. Fino a pochi anni fa si pensava che la culla evolutiva dell'uomo fosse riconducibile alla cosiddetta Rift Valley, a cavallo fra Kenya e Tanzania. E' qui che trovarono Lucy, l'Australopithecus afarensis, nonché il più antico antenato dei gorilla, il Chororapithecus abyssinicus. Con le ultime scoperte, invece, il baricentro evolutivo si sta spostando sempre più verso sud, e il SudAfrica pare in pole position nella classifica delle nazioni che ci dettero i natali. Senza andare troppo in là nel tempo, è di pochi mesi fa il rinvenimento nelle grotte di Sterkfontein di un'altra specie battezzata Australopithecus prometheus. Certo, era molto più antica dell'ultima ritrovata, ma è curioso notare che probabilmente visse in contemporanea a Lucy, la mamma di tutti noi. E il futuro della ricerca in campo paleoantropologico parte ancora da qui. «Ci sono centinaia per non dire migliaia di resti da studiare», chiude Berger. E le grotte di Sterkfontein hanno ancora parecchi misteri da svelare.
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