Sull'incontro di venerdì 11 gennaio con Guido Crainz e il suo libro “Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi” edito da Donzelli
Altan in una sua vignetta fa dire a due personaggi queste parole: a - il Paese ha bisogno di riforme, b - è vero, ma anche le riforme avrebbero bisogno di un Paese. Massimo d'Azeglio circa 150 anni prima con altre parole dice la stessa cosa, spingendo il tasto sul politico che dovrebbe riformare prima se stesso. Parole audaci che dette ora farebbero affratellare d'Azeglio a Beppe Grillo se non altro idealmente. Il problema è sempre lo stesso: quando siamo pronti con le riforme non c'è il Paese, quando il Paese dice di essere pronto non ci sono le riforme, la nostra storia politica è fatta di equivoci, di appuntamenti mancati, di tentativi di accoppiamento andati male. Il Paese e le riforme non si piacciono, non è colpa di nessuno. L'innamoramento si sa è sempre irrazionale. Non c'è feeling, il Paese va da una parte e le riforme da un'altra, migrano verso altri Paesi con i quali l'amore è corrisposto e da buoni frutti. Fino ad ora la scintilla non è scoccata, pazienza ci facciamo coraggio, per il momento le sognamo le riforme, ne parliamo, le enunciamo, ne facciamo delle lunghe liste, prepariamo dei succulenti piatti con le riforme, ottime riforme, ne sentiamo il profumo tanta è la nostra immaginazione e, parlandone sempre ad ogni occasione ci sembra un po' di averle fatte. Funziona così nel nostro Paese. Il problema è che le riforme sono fantasmi che tutti evocano ma quando appaiono fanno paura perché includono dei vincoli, qualche legge, delle regole, e un popolo anarcoide non sopporta norme e regole, che se in altri paesi sono paletti da seguire diligentemente per noi sono segnali da evitare con ogni cura. Le riforme sono accettabili solo se sono applicate agli altri e, gli altri sono quelli dell'altro club, dell'altro partito, dell'altra famiglia, dell'altro clan. È il limite non solo della politica ma del Paese intero. Se le parole di d'Azeglio suonano così attuali, miracolosamente convergenti con quelle di Altan significa una cosa sola, che il Paese per tutti questi anni è rimasto ripiegato su se stesso, senza la forza di pensarsi diverso e modificabile, anzi agendo per non spostare nulla mummificandosi in un'indolenza atavica, meschina e pericolosa. E se il Paese è riconoscibile nei versi di Dante, “ ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello “ (Purg.V, 76-78 ), questa mummificazione è qualcosa di molto vecchio che appartiene al nostro sistema nervoso, al nostro corpo e all'inconscio nazionale ( se così si può dire ), prima che alla nostra cultura sancita dalle leggi e dalla letteratura. Per questo l'immobilismo è la nostra cifra politica più evidente, una depressione del nostro animo, il grande buco nero sociale nel quale tutto viene compresso fino ad essere polverizzato. Dunque quello che ci distingue come Paese reale è un fermo immagine lungo qualche secolo, che ci segna tuttora come il popolo con meno senso della comunità d'Europa. Mario Soldati diceva che noi italiani non siamo inferiori come cultura a nessuno, siamo solo diversi e rifuggiamo ogni catalogazione; per noi, stare insieme è difficile in quanto non ci distingue gli uni dagli altri. Per noi italiani pensare insieme la società è diventato un inciampo, qualcosa che ingombra, che non interessa. Per questo il rampantismo è diventato il segno degenere dell'individualità. Una degenerazione iniziata negli anni 80, periodo d'oro della politica circense, dello svago, dello sperpero, dei nani e delle ballerine, del consenso strappato a suon di prestiti con soldi pubblici a fondo perduto a categorie inverosimili di finti imprenditori e di veri farabutti. Il rampantismo degli anni sessanta aveva qualcosa di pittoresco, di acerbo che perlomeno ha lasciato uan filmografia, anche se qualche difesa poteva e doveva essere messa in atto verso certe figure non limpide. Ma non è stato fatto. E così di male in peggio fino ai Novanta. La breve e inebriante parentesi di Mani pulite che promise di emendare la politica dai cialtroni e dai ladri non sortì gli effetti attesi. I rampanti ringalluzziti da nuove leve e vecchi magnati tornarono a riprodursi dopo una periodo di siccità sapendo bene che l'humus non era cambiato. Fondarono partiti, rimpolparono le caste, trovarono alleati anche nelle opposizioni (a loro insaputa), e i partiti più o meno allegramente finiti per diventare dei contenitori per nuovi rampanti, svuotati e ondivaghi sono impersonati sempre più spesso da populisti e personaggi meschini e impreparati. Cosa ci si può aspettare da tutto questo? Direi un altro partito: il partito della Sveglia. Pds. di Ivano Nanni
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