Percival Everett scrive un romanzo western per analizzare la società americana, questa la sua provocazione. Il protagonista de Il paese di Dio è un antieroe, le sue imprese fanno ridere, muovono a compassione e liberano sadismo. Si tratta di un eroe immorale, un uomo pre-inconscio, un disperato conformista che rispetta il codice del West con ostinazione indolente, senza troppo pensare. Un codice che somiglia molto a certe convenzioni sociali o a certe tradizioni onorate con svogliatezza. Perbenismo del west ma non solo. In un romanzo di Everett non manca mai la spietata denuncia sociale, lucida e puntuale, ironica al punto tale da eliminare ogni traccia di retorica. Così in questo romanzo i bianchi si travestono da indiani e diventano dei guerrieri pressapochisti che confezionano frecce senza passione; Bubba è l'unico vero cowboy del romanzo; gli stupidi restano stupidi; la felicità diventa una questione da poco: qualche spicciolo, la terra, whisky, fagioli e un buon cavallo.
Il destino avanza lento nella vita dei protagonisti, toglie e dona nella stessa misura in modo da non lasciare quasi nulla. Dio è ma non c'è, crudele e impietoso.
Non c'era più niente di sacro? Ho chiesto al cielo:”Non c'è più niente di sacro?”. E il vasto, impietoso cielo del West ha fatto un gran sorriso e non ha detto niente.
E poi ancora: L'uomo ha un Dio insopportabilmente crudele in cui credere.
Il predicatore fa la sua comparsa nel romanzo in una diligenza piena di donzelle agghindate, di prostitute. Tenta di vendere una Bibbia a Marder assicurandogli che all'interno del testo sacro si possono trovare le risposte a tutto. “Prendetela, amico mio. Come ho detto, manca solo qualche pagina. Un brutto mal di pancia appena usciti da Kansas City ha portato alla scomparsa di quasi tutto il Deuteronomio. Mai stato a Kansas City?” Un attacco frontale alla retorica cattolica americana.
Indiani d'America e neri subiscono, lungo tutto il romanzo, ogni genere di affronto razzista e rispondono con la consueta impotenza. Percival Everett affronta tutte le abitudini razziste: barzellette sui pellerossa (che anche con i negri funzionano bene), l'idea radicata che un muso nero o un muso rosso conservino i sensi animali ancora intatti, consuetudini d'inferiorità, separatismi, pregiudizi. Sublime quando lo sciocco Marder saluta Alce nero dicendo Augh o quando si indigna nel vedere che a Bubba è stata data una porzione di cibo uguale alla sua; non molto diverso da ciò che accade in Italia dove ad un nero si dà sempre del tu e dove è irremovibile la convinzione che gli africani abbiano la musica nel sangue, che gli indiani siano sempre gentili, gli albanesi aggressivi e i cinesi anaffettivi.
In tutto questo marciume splende la figura di Bubba che, paziente e stoico, non cede alle provocazioni e gestisce con saggezza ogni affronto.
“Tutto quello che voglio è che un giorno non debba preoccuparmi che un bianco decida che l'ho guardato male, un giorno in cui non debba preoccuparmi quando sento arrivare un cavallo alle mie spalle, un giorno in cui nessuno mi chiami figliolo”.
“Non è granché come sogno”, ho detto. L'idiozia di questa risposta, data dallo sciocco Marder, mi commuove.