Il Prodotto interno lordo (Pil) del Regno Unito è cresciuto del 2,6 per cento lo scorso anno. E promette di crescere altrettanto nell’anno in corso. L’Italia, per fare un paragone, ha perso altri 0,4 punti di Pil lo scorso anno, mentre ne guadagnerà soltanto 0,6 nell’anno in corso. Sono troppe le differenze tra le economie dei due paesi in questione per spiegare un divario così ampio ricorrendo a un solo fattore. Certo è che il Regno Unito, sotto il governo del conservatore David Cameron, ha tagliato la spesa pubblica e soprattutto le tasse sulle imprese. Sarà un caso il suo boom in corso?
Sapete qual è il paese occidentale che sta uscendo più rapidamente dalla crisi iniziata nel 2008-09? Secondo tutte le statistiche, si tratta del Regno Unito. Londra addirittura batte gli Stati Uniti con il suo ritmo di crescita. E forse non è un caso che questo paese, sotto la guida del governo di coalizione Conservatori-Liberali di David Cameron, abbia perseguito essenzialmente una ricetta che è quella cara a questo sito: meno spesa pubblica così da poter abbassare le tasse responsabilmente e lasciare più soldi nelle tasche di tutti i contribuenti e più libertà agli imprenditori.
Lo scorso anno, cioè nel 2014, il Prodotto interno lordo del Regno Unito (qui una definizione semplice di “Pil”) è cresciuto del 2,6 per cento; nello stesso periodo, per fare un paragone, la nostra Italia arretrava di 0,4 punti (dopo aver già perso 1,7 punti di Pil nel 2013 e addirittura 2,8 punti di Pil nel 2012). Quest’anno invece il Pil italiano, che è uguale al valore monetario dei beni e servizi finali prodotti in 365 giorni sul territorio nazionale, dovrebbe crescere finalmente dello 0,6 per cento; intanto però il Regno Unito, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, potrebbe arrivare addirittura a più 2,7 per cento, oltre quattro volte la crescita italiana (clicca qui per le previsioni più aggiornate).
La questione non è soltanto statistica. Più crescita vuol dire meno disoccupazione. Nell’autunno 2011 a Londra si arrivò a un picco di disoccupati; il tasso di disoccupazione infatti toccò l’8,7%; oggi è sceso al 5,7%. In Italia, per continuare con il raffronto, il tasso di disoccupazione è da circa un anno ben sopra il 12%. In numeri assoluti, come fa notare la BBC, vuol dire che i disoccupati inglesi erano più di 2 milioni e 600 mila alla fine del 2011, mentre oggi sono 1 milione e 800 mila. Una riduzione tutt’altro che indifferente, di cui gli inglesi (e pure gli italiani emigrati lì in cerca di lavoro) saranno felici.
Qual è stata la ricetta del Governo Cameron? Eletto nel 2010, quando la crisi era già scoppiata ed anzi era al suo apice, il Governo inglese promise una cura a base di “austerity”. Quindi: rigore fiscale sui conti per poter ridurre deficit e debito pubblici, in cambio di un robusto e progressivo taglio di tasse. A differenza della maggior parte degli altri paesi dell’Europa continentale, Italia inclusa, Londra non si fermò al primo punto, cioè “rigore fiscale”, magari alzando balzelli e imposte per far quadrare i conti. Decise che la via per aggiustare le finanze pubbliche era quella che passava per il dimagrimento dell’amministrazione pubblica, non per il dimagrimento dei cittadini. Su questo fronte, Londra si è mossa con pragmatismo, senza inseguire a tutti i costi il tetto al deficit del 3% come si è fatto nell’Eurozona, ma si è mossa anche con serietà: il rapporto tra deficit pubblico e Pil, che era esploso dopo la crisi arrivando all’11%, è sceso oggi al 5%; le sole spese di funzionamento dei ministeri sono scese dell’8% in questi quattro anni. Con le risorse così liberate, lo stesso Governo ha tagliato le tasse. Quelle sui redditi più alti, per esempio, cioè superiori alle 150 mila sterline, riducendo l’aliquota dal 50% al 45% e ottenendo così maggior gettito. Soprattutto, Londra ha tagliato le tasse sulle imprese. La Corporate income tax inglese, cioè l’imposta sui profitti delle imprese, dal 2010 a oggi è scesa rapidamente dal 28% al 20% (qui la tempistica ufficiale, dal sito del Governo); un calo affiancato poi da defiscalizzazioni per profitti da brevetti e sul costo del capitale. Anche così è partita la gara delle grandi aziende di tutto il mondo a “delocalizzare” nel ricco Regno Unito, con non poco sollievo dei lavoratori locali.