Strano fenomeno: in nessun paese del mondo la retorica della legalità – da decenni ormai – ha tanto successo come in Italia, e viene fatta propria da istituzioni, partiti, associazioni, enti, media, da tutti gli strati della società; allo stesso tempo, però, in nessun paese del mondo è tanto diffusa la sensazione che le mafie – suggestivamente al plurale – si stiano infiltrando sempre più estesamente dentro gli strati tutti di questa società. Altro strano fenomeno, ma parallelo: sono più di vent’anni che la nostra magistratura continua «a rivoltare l’Italia come un calzino per sradicare la corruzione dalla pubblica amministrazione»; eppure le radici della corruzione sembrano ricrescere più forti e tenaci che mai ogniqualvolta vengano strappate. Ci si aggira in una cacofonia plumbea; la mole immensa e farraginosa dei materiali processuali più che avvicinarci alla verità sembra addensare ogni giorno nuove ombre anche su quello che pareva accertato; e si ha come l’impressione di vivere in un paese di invasati, incapace di guardare con equilibrio dentro se stesso.
Ciò è dovuto a due ragioni, strettamente collegate fra loro. La prima è che il partito della legalità è tutt’altro che innocente; non nasce da disinteressato civismo, ma da interessi politici, o da motivazioni ideologiche. La seconda è che proprio quella magistratura che ostenta maggior protagonismo nella lotta ai fenomeni corruttivi, non solo non costituisce un esempio d’indipendenza, ma al contrario si muove su solchi già tracciati da qualcun altro. Dagli anni settanta in poi tutte le grandi inchieste giudiziarie sulla corruzione sono state precedute dall’attività febbrile della propaganda politica e delle inchieste giornalistiche, e dalla pubblicazione di libri. Tutto questo incessante lavorio, basato in genere su mezze verità, cioè su mezze menzogne, arbitrariamente messe insieme, è servito per scrivere in anticipo i vari capitoletti della storia dell’Italia repubblicana secondo il verbo dei seguaci della “questione morale”; sorta di messianismo politico la cui tesi di fondo è che l’Italia è un paese antropologicamente criminale e cripto-fascista fatto salvo un resto di buoni, di onesti e di democratici, destinato un giorno a guidare un paese purificato e rigenerato.
La magistratura entra sempre in azione dopo che ogni capitoletto di questa storia di regime sotto false spoglie democratiche si sedimenta per benino, ancorché infarcito di bubbole spaziali o di galattiche esagerazioni, nel cervello del popolo: non prima, perché sennò il rischio di cadere nel ridicolo agli occhi dell’opinione pubblica è troppo forte. Il compito della magistratura ha perciò qualcosa di sacerdotale, come ben si addice allo spirito settario: è quello di sacralizzare con le sentenze le superstizioni dogmatiche dei cultori della legalità.
Dove possono finire la misura, il discernimento, l’esatta valutazione della natura, della gravità e della vastità dei fenomeni corruttivi in tale contesto, se non nel novero delle cose inutili e fors’anche sospettabili di connivenza? E come può un paese fare un vero esame di coscienza, capire con chiarezza quali sono i suoi problemi, il suo posto e i suoi interessi nel mondo, se è costretto da queste legioni di guardiani della rivoluzione ad essere continuamente sospeso tra l’autoflagellazione e la voglia di ghigliottina?
Ecco perché, allora, la vera battaglia che attende chi ha ancora la testa sulle spalle, chi ha ancora conservati intatti la propria indipendenza di giudizio e perfino il proprio senso dell’umorismo, è quella contro l’isteria generalizzata di un paese che in questa agitazione farsesca e cieca sta perdendo ormai anche il puro e semplice istinto di autoconservazione.
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