Il paese perfetto

Creato il 03 novembre 2015 da Cittasottile

È un paese piccolo, ma perfetto. Sinio ha poche case, arrampicato sulla collina che incombe sulla ferita della valle Talloria: un solco lungo e stretto, verde e ordinato, scavato tra i vigneti. Ieri i vigneti erano rosso sangue, e di un giallo caldo e antico, spruzzato sulle foglie avvizzite dei graspi come da una pioggia indecisa. E il verde era brunito, severo, un po’ anziano, seduto sul prato che sembra morire.

Nessuno per strada, qualche macchina sul piazzale. Da una Volvo scende un signore che entra nel circolo Arci: un po’ piola, un po’ bar, un po’ centro anziani. Dentro, due tavoli e altrettanti mazzi di carte in gioco, qualche cartello, nessun quadro e poche foto di donne in costume o in posa con figli e nipoti: “Masche nel mondo”, è il titolo della raccolta, le streghe-maghe di Sinio che si celano dietro ogni donna nata qui, così lontano dal mondo e così vicino al cuore del mondo.

Sul piazzale c’è un cartello turistico, con fotografie, mappe, descrizioni storiche: il castello dei Del Carretto, la cappella di San Sebastiano, le solite sintesi che danno un’idea, pur non raccontando un granché. Nel titolo un refuso, “Città di Sino”. Sin qui, sinora, sino a ieri, sino a quando? Ma come, un paese perfetto, sciolto sul crinale con le sue case nitide, pulite, le strade da fare in pantofole, le piante che chiedono scusa se cade una foglia, le chiese senza rintocchi per non disturbare. Nessuno che passi per strada. Un paese incantato e incantatore, sul quale aleggia un ordine quasi monastico. Non può essere un errore. Forse è un incantesimo, penso. Divorata da un d’I voratore. Oppure assorbita da un flusso di particelle verso un mondo parallelo, verso un pianeta senza vocali: “pnt Trr”. O forse la “i” è volata via, rapita da un colpo di vento e ha creato un altro refuso qualche strada più in là, sfuggita al becco di un falco e all’intrigo spinoso di un rovo di more, posatasi sulle ali di una farfalla o sul dorso di un bastardino fino a incastrarsi in un’altra parola come un’aliena, come un ospite che puzza, come una suocera sopra a un letto d’amore.

Passo davanti al teatro – un teatro: due chiese, un municipio, un castello e un circolo Arci, quindici case e un teatro – e scelgo una strada in discesa. Mi guardo intorno, cerco cartelli, avvisi, targhe stradali, segnaletiche. Sciolgo i rami dei bossi, li separo, scruto tra le foglie. Leggo i citofoni. Ed ecco, sotto uno di essi, un cartello: “Per la consegnia dei pacchi, rivolgersi a…”. Trovata.

Metto la mano sinistra a coppa sotto il cartello e con la mano destra do qualche colpetto alla carta plastificata dal nastro adesivo. Con il rischio di essere preso per un ladro, in questo paese dove le masche sembrano celarsi dietro le fessure delle persiane, faccio ancora qualche tentativo finché la “i” decide di staccarsi, sempre impettita con il suo puntino in testa, sempre ben salda con le sue grazie larghe e solide. Ritorno pian piano verso il piazzale davanti al castello, posando la mano destra sulla sinistra a far da gabbietta per questa “i” così decisa eppure così spaventata, dall’indole indomita, sia pur se isolata e, al momento, inutile.

Davanti al cartello turistico riapro le mani e, con un soffio leggero, sollecito la “i” a sollevarsi. Solerte, essa compie un’iperbole e poi, di slancio si avvita e si incunea tra la “n” e la “o”, riportando l’equilibrio nel paese. Qualcuno ha seguito il mio passaggio e alcuni scuri si aprono mostrando volti di masche brune, dai nasi affilati e i menti sporgenti, dalle chiome corte e stoppose, dagli abiti neri e avvolgenti. Vorrebbero mostrarmi altri refusi, convincermi a riparare altre parole, a prendermi cura di altre vocali e consonanti perdute nelle linee parallele dei filari, sedotte da un refolo di libeccio e trascinate in una pozza sorgiva, o in un sottobosco annodato, sepolte dall’erba e dalle pietre, ingoiate da una grotta o da un gatto, bevute con l’acqua da un cinghiale.

Ma è tempo di tornare, e l’auto già romba tra i pistoni, e le gomme sono turgide e avide di asfalto. Le mani già accarezzano il volante mentre il sole precipita assonnato sui monti.



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