Nella danza ciclica del tempo sicuramente l’Occidente ha vissuto epoche più timorate e puritane della nostra. Non vi è dubbio, al tempo stesso, che ve ne sono state altre, non così remote, incomparabilmente più libere e permissive in quanto a moralità, la qual cosa fa sì che molti si sentano vittime di una retrocessione difficilmente sopportabile di buon grado. Mentre le epoche del secondo tipo sono solite coincidere con grandi espolosioni d’intelligenza e creatività umana, quelle del primo tipo tendono a farlo con momenti in cui la stupidità sembra ergersi come paradigma dominante. Ovvio, né l’intelligenza né la creatività, né il gusto né lo stile sono mai scomparsi completamente dalla faccia della terra, semplicemente danno la sensazione che, lontano dal costituire un punto di riferimento capace di influenzare la società, persino nei suoi ambiti minoritari, vengano considerati con sospetto e relegati alle tenebre.
Ci si abitua tanto alla mediocrità e alla mancanza di idee nel discorso politico -ched sembra dominato da quegli studenti grigiastri che non hanno nemmeno il glamour dei primi della classe-, nei media, nel lavoro e nella cultura di massa, che si corre il rischio di dimenticare che esiste un’altra maniera di pensare, di vivere, di fare le cose e organizzarsi. Si sentono con tanta naturalezza e frequenza, per esempio, commenti negativi sulla vita stile Amy Winehouse, che a volte ci si dimentica che non si può pretendere di avere un’artista torturata che fa dischi che ci dilaniano il cuore, nutrendola con una dieta senza nicotina né droghe e ricca di verdure, succhi, felicità coniugale e latte scremato. Ci si dimentica che per alcuni artisti la comunione diretta con il dolore rappresenta una parte essenziale del loro lavoro che consideriamo così eccezionale. È come se pretendessimo che consiglino alle varie Billie Holiday che, aliene dalla sofferenza, conducessero una vita felice andando in palestra tutti i giorni per tenersi in forma e leggendo libri di auto-aiuto (come se ogni buon libro non fosse già di auto-aiuto) per convincerle che il mondo è un luogo meraviglioso in cui ogni problema è frutto dell’immaginazione. O ai vari Gaudi di essere perfettamente normali e funzionali, ben vestiti, capaci di lavorare dalle nove alle cinque, scevri da profonde o inquietanti commozioni spirituali.
Ma non è così, naturalmente, e il tormento interiore di queste persone a volte li trasforma in artisti straordinari. È questo il caso di Antoni Gaudí, la cui prima opera rilevante, il Palazzo Güell—dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1984- ha riaperto le porte al pubblico dopo un restauro integrale, in cui l’unica parte che non è stato possibile recuperare è l’organo principale, che lo ha fatto chiudere per sette anni.
Costruito tra il 1886 e il 1890 nel Carrer Nou de la Rambla, vicino al porto, questo edificio spiccò dall’inizio per la sua concezione innovatrice dello spazio e della luce, e per l’uso personale e visionario della pietra, del marmo, del legno, del ferro battuto, dei metalli e del vetro.
Più di cento anni dopo continua ad impressionare come il primo giorno, quando non vi era a alloggi Barcellona più favoloso.
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