Il panorama arabo-islamico visto da Khaled Fouad Allam – BloGlobal intervista il politologo algerino

Creato il 08 ottobre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi
di Redazione di BloGlobal

BloGlobal ha incontrato al festival di Internazionale Khaled Fouad Allam, sociologo e politico algerino naturalizzato italiano, editorialista di Repubblica e del Sole 24 Ore, autore di numerosi libri, tra cui “L’Islam globale”. Con Allam, studioso di sociologia del mondo musulmano e dell’Islam contemporaneo, abbiamo chiacchierato dei rapporti tra mondo arabo-islamico ed Occidente e delle rivolte nel mondo arabo.


Professor Allam, nella Sua carriera si è a lungo occupato di temi riguardanti “integrazione” e “Islam” e delle differenze culturali tra le società occidentali e le società arabo-islamiche. Lei crede che le società occidentali abbiano trovato un proprio modello di integrazione dell’Islam? E nel caso ancora non sia stato trovato, crede che esista un giusto modello di coabitazione tra Islam eOccidente?

In realtà un modello non esiste, perché nella pratica politica digestione e governance di questi fenomeni, gli unici modelli di integrazione sono spesso ripresi da modelli già esistenti: per esempio da quello britannico, basato sul multiculturalismo, o da quello francese, incentrato sulla cittadinanza. Quando analizziamo le politiche di costruzione e integrazione questi Paesi seguono, in un certo senso, quelle che sono le loro politiche coloniali: “assimilazionismo”, tipico del modello repubblicano francese, e l’“inner fall” o “comunitarismo”, tipico del modello britannico o anglosassone.

Quello che sta avvenendo oggi in Europa, però, è qualcosa di diverso rispetto al passato, anche se non è la prima volta che l’Islam si affaccia sulvecchio continente. Il rapporto tra Islam e Europa dura da secoli. Ma è anche vero che vi sono delle differenze tra l’Islam di allora e quello di oggi. Quando si affacciò per la prima volta in Europa, tra la Sicilia e la Spagna Meridionale, si trattava di un “Islamdi conquista”, figlio, piuttosto, dei flussi migratori mondiali e dei processi di decolonizzazione.

Ora l’inserimento in maniera definitiva di una minoranza religiosa inEuropa richiede anche la creazione di un’architettura socio-culturale e politica, in quanto la questione dell’Islam, inteso come culto, nel rapporto Stato-nazione europeo è qualcosa di assolutamente nuovo. E il problema della costruzione di un’architettura adatta solleva il problema del conferimento di un’identità all’Islam europeo, poiché proprio a questo si devono dare gli strumenti giuridici necessari affinché possa supportare una siffatta architettura istituzionale.

Un altro aspetto importante è che noi non sappiamo creare un modello culturale. L’integrazione non è soltanto avere il passaporto, la cittadinanza o il diritto di voto: è un lavoro più complesso della società, che deve lavorare su se stessa. La questione si pone in termini più significativi per l’Europa a differenza di quanto avviene, per esempio, negli Stati Uniti. Il punto è che l’Europa si trova in presenza di un’enorme eterogeneità, la quale è difficile da tradurre giuridicamente attraverso un linguaggio politico e culturale adeguato e originale. Quindi torniamo ai due modelli classici: assimilazionismo e multiculturalismo. Il problema di questi modelli è che entrambi arrivano a teorizzare un’impossibilità di integrazione dell’Islam. Così o la persona immigrata si identifica pienamente con il modello proposto, oppure fomenta esattamente il contrario. Lei ha spesso denunciato i legami perversi tra Islam e politica, sottolineando come spesso la politica si è servita dell’Islam, anche il più radicale, per asservirlo ai propri interessi. Oggi più che in passato pare emergere un uso strumentale della religione quasi come giustificazione dei problemi delle società arabo-islamiche, veda l’attacco Ambasciata di Israele o ai Cristiani in Medio Oriente. Non crede sia un atteggiamento ipocrita usare lo spauracchio dell’islamismo violento che, almeno a parole, si tende a combattere e contemporaneamente, e, invece, lo si fomenta?Sicuramente vi è un uso ideologico della religione da parte della politica. Alcune classi dirigenti arabe usano la religione per definire una doppia linea, una di contenimento all’interno delle strutture statali e un’altra di sfruttamento della stessa per fini politici e populistici. Questo è stato il caso dell’Algeria pre-guerra civile, nel 1984, quando il governo ha promulgato un codice civile che ribadiva l’uso dellashari’a nella gestione della vita delle persone.Questi fenomeni di contenimento e sfruttamento dell’Islam violento per essere capiti devono essere contestualizzati storicamente. Infatti, tutto ciò che succede nella koiné islamica e araba, così come un’avanzata del radicalismo islamico, deve essere incanalato nella costruzione di un dibattito interno alla società sull’applicazione della shari’a. Quello che è derivato dal dibattito nella società è che, da una parte, in maniera molto furbesca, nessuno Stato ha mai definito che cos’è la shari’a e, dall’altra parte, è venuto fuori un contrasto tra chi è favorevole e chi è contrario alla sua applicazione, favorendo indirettamente l’avanzata di questi movimenti. Infatti, in Algeria, durante gli anni Novante, è avvenuta questa sorta di spaccatura della società, in cui i favorevoli alla shari’a hanno cominciato a fare proseliti nei campus universitari, favorendo, indirettamente, un clima di tensione nel Paese.Quindi, da un lato, ci sono le colpe del mondo arabo-islamico e, dall’altro lato, le responsabilità europee nell’accentuare il problema del radicalismo islamico e del terrorismo di matrice islamica come un impedimento al diffondersi di adeguate politiche di sicurezza concertate con le controparti politiche arabo-islamiche. Questa diatriba sull’Islam ha, dunque, prodotto un rapporto molto strano tra le necessità della sicurezza e quelle del potere.Ma le preoccupazioni e i timori verso l’Islam hanno prodotto anche una totale dimenticanza delle rivolte arabe (e del ruolo delle società civili) le quali sembrano essere nate, nella visione comune dei media occidentali, solo una giornata di dicembre del 2010. In realtà, tutto questo è il prodotto della storia. Ecco, quanto alle rivoluzioni avvenute nel mondo arabo-islamico, Lei crede che non sarebbe più giusto parlare di “restaurazione” piuttosto che di “rivoluzione”, anche in virtù delle attuali situazioni in Egitto e in Tunisia?In arabo esiste una parola per indicare un concetto simile: “thawra”,che significa sia “rivoluzione”, sia “rivolta”. Le rivoluzioni non sono mai dei processi brevi, ma dei processi lunghi. Ricordiamoci, ad esempio, quanto avvenuto in Europa con il “Terrore” post-rivoluzionario (1789-1793), ma potremmo parlare di processi lunghi anche nella Rivoluzione Russa o in tante altre rivoluzioni.In realtà esistono due rivoluzioni, quella attraverso i social-network, i blog e internet, e quelle popolari, in cui la gente scende in piazza a manifestare il proprio dissenso. Esse non combaciano sempre per vari motivi (culturali, strutturali,..), ma, come ho scritto su Il Sole 24 Ore lo scorso gennaio, queste rivolte sembrano approdare piuttosto verso un “islamonazionalismo”. Questo atteggiamento trova conferma sia in Egitto, sia in Tunisia: da un lato i vecchi nazionalistici e i movimenti religiosi stanno cercando di darsi un volto istituzionale attraverso elezioni che si svolgeranno nei prossimi mesi, dall’altro i movimenti laici si trovano a dover difendersi dall’avanzata di questi gruppi.

La novità più rilevante, invece, risulta essere il gioco istituzionale che si sta delineando fra le componenti nazionaliste, libertarie, laiche dell’Islam politico. Appunto quale genetica politica si creerà? E’ importante saperlo perché la sostanza della democrazia è la canalizzazione di un’idea di conflitto all’interno delle istituzioni, non come avviene oggi nelle piazze, magari ammazzando qualcuno solo perché non la pensa nel mio stesso modo. Questo sarà, dunque, un aspetto nuovo e importante, ma avrà bisogno di tempo per emergere.

Di sicuro il mondo arabo è uscito da un suo ciclo della storia per affrontarne uno totalmente nuovo, soprattutto, in virtù del fatto che è cambiato il mondo. 

Lei, in un Suo articolo su “Il Sole 24 Ore”, ha espresso un giudizio preoccupato sulla Libia,  parlando di una guerra contro Tripoli come un possibile “Afghanistan del Mediterraneo”. Estendendo questa Sua definizione di pericolo all’intero bacino del Mediterraneo, non crede che la mancanza di un reale interesse politico da parte dell’Unione Europea e degli USA sia molto grave anche in vista di una crescente destabilizzazione regionale?

Questa mia osservazione sulla Libia ricorre più volte nei miei articoli, in cui ho cercato di spiegare la pericolosità intrinseca di Tripoli, anche se i problemi, in relazione al Mediterraneo, sono diversi e numerosi.

Se analizziamo le rivolte arabe dall’altra sponda del Mediterraneo, notiamo come queste possano considerarsi il fallimento dell’Europa dinanzi alla riva sud. Vale la pena di sottolineare due aspetti: 1) spesso l’Europa ha fatto del concetto della sponda Nord-Sud una sorta di barriera di sicurezza; 2) la sponda sud del Mediterraneo viene avvertita come una periferia dell’Europa. È per questo che dico che si tratta di un fallimento dell’Europa, perché questa non si è preoccupata di costruire un sistema di integrazione socio-economica e culturale effettiva, ma, semmai, ha alimentato le sue contraddizioni. Un emblema di queste contraddizioni è, ad esempio, la questione turca: Bruxelles, non arrivando a definire una posizione unica per l’ingresso di Ankara, come può ad avere un approccio altrettanto univoco nei confronti della sponda sudmediterranea? Finché l’Europa non sarà in grado di capire cosa vuole essere, non riuscirà ad avere una sua collocazione definita nel Mediterraneo.

La grave mancanza europea è di non riuscire a comprendere l’importanza della posta in gioco e delle opportunità offerte dai partner nordafricani. Paradossalmente gli Stati Uniti, nonostante le loro contraddizioni, lo hanno compreso meglio. Ma questo dipende anche dal fatto che gli USA sono effettivamente una società multiculturale, mentre l’Europa non lo è affatto. 

A proposito della stabilità regionale mediterranea, in questi giornisi discusso a lungo all’Assemblea Generale dell’ONU sul riconoscimento di uno Stato palestinese. Lei ritiene che questo possa esserci finalmente una svolta politica rilevante o continuerà a sussistere una situazione di incertezza?

Questo è un problema che continuerà ad andare avanti nel tempo, al di là del ruolo delle Nazioni Unite e della domanda di adesione che hanno fatto i Palestinesi. Questa richiesta è un’abile mossa per sbloccare una situazione che mi sembra paralizzata da diversi mesi ormai. Non si tratta solo di questioni politiche tra Israeliani e Palestinesi, ma anche e soprattutto di fattori culturali. La cultura è importantissima ed è a monte dei processi di innovazione sociale e politica. Dunque, manca questo fattore.La questione arabo-israeliana è la madre di tutte le dispute contemporanee perché ha assunto il paradigma di tutte le contraddizioni del XXsecolo ed è, inevitabilmente, anche un argomento europeo. L’incoerenza del Quartetto risiede nell’incapacità di affrontare queste questioni e costruire delle architetture politiche in grado di dare logicità all’appartenenza. Per questo la questione israelo-palestinese va ben al di là della questione del riconoscimento di uno Stato. Ad ogni modo, credo che si arriverà comunque ad un riconoscimento di uno Stato palestinese, ma è solo una questione di tempo da portare simmetricamente avanti ad un processo di fiducia reciproca da ambo le parti.Infine, vorrei porLe una domanda sul Suo Paese natale, l’Algeria, che, nonostante sia stato il promotore di questi moti nella regione, sembra essere ancora un “gigante addormentato”. Crede che il Suo Paese possa trovare una strada per una sua “primavera araba”?In verità, durante lo scorso inverno in Algeria ci sono stati dei movimenti, anche se marginali, i quali però non hanno prodotto nulla di quello che abbiamo visto altrove. Forse un fattore è dovuto al ricordo ancora nitido, tra la popolazione algerina, della guerra civile che, durante gli anni Novanta, ha procurato migliaia di morti. Credo, perciò, che in Algeria si viva ancora quel trauma profondo. Questo ha indotto, evidentemente, ad una minore mobilitazione.D’altra parte, diversamente dalla Tunisia, l’Algeria è un Paese molto ricco di gas e tale opulenza ha permesso di comprare facilmente la pace sociale, si pensi, ad esempio, al raddoppio degli stipendi dei lavoratori statali. Ma ciò non significa che il Paese non sia percorso da amarezza o insoddisfazione.Inoltre, è necessario sottolineare come le società algerine, marocchine o tunisine siano estremamente differenti tra loro. La società algerina è molto più fragile e frammentata anche a causa del suo passato coloniale e della sua storia recente. Quindi la paura di una destabilizzazione dell’unità algerina funge da deterrente sia per le forze di governo, sia per la società civile. Almeno per l’Algeria, dunque, non si può parlare di “Primavera araba”.

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