(continua il rispolvero di vecchi articoli di questo blog da parte di Cronache Letterarie, dopo Caldwell oggi è la volta di un altro monumento della narrativa made in U.S.A.)
James Myers Thompson (1906 – 1977) è uno tra i più rinomati scrittori di «genere» a stelle e striscie. Deve la sua fama principalmente al noir, etichetta sotto la quale andrebbero rubricati almeno una trentina di libri di questo prolifico autore pochissimo apprezzato in vita, e la cui statura letteraria venne riconosciuta solo negli anni 80 con le riedizioni della casa editrice Black Lizard. L’umanità che costella i libri di Thompson è un’accozzaglia proteiforme di truffatori, perdenti, sgualdrine e sociopatici: il tipo di fauna che pullula nei recessi della società contemporanea (talvolta abitandola sin nelle gerarchie più alte, perfettamente inserita nel castello di convenzioni che ne regola il funzionamento).
Il punto di vista dell’autore è quasi sempre espresso da una narrazione classica, una narrazione piana e priva di sdruccioli dietro la quale si cela una perfetta comprensione degli abissi della follia criminale: attraverso l’utilizzo della canonica prima persona, la prosa di questo scrittore adesca sottilmente il lettore, costringendolo a diventare quasi complice di quell’abiezione descritta con spaventosa perizia. Difficile trovare personaggi positivi nei libri di questo monumento del pulp: anche quelli apparentemente più innocui mascherano dosi considerevoli di egoismo, meschinità, cupidigia e vizio. [qui il seguito]