I lavori manuali non sono la mia passione, ma abbandonare per un po’ le attività consuete, il computer, le riunioni, il telefono, e darci dentro con pennelli e carta vetrata può essere, a suo modo, incredibilmente rilassante. Ovviamente non c’è nulla di tecnologico, in quel lavoro. Ma non è alla pittura che mi riferivo parlando di tecnologia che si fa dimenticare, ma all’unico accessorio extra-lavorativo che ho usato in quei giorni: il mio iPod.
Ce l’ho già da qualche anno, ma fino all’altro giorno l’avevo usato solo una volta o due alla settimana, durante il jogging, e in poche altre occasioni. Invece, quando ho cominciato a fare il “pittore della domenica” con l’iPod in tasca e gli auricolari nelle orecchie, ho capito subito che stava succedendo qualcosa di incredibile. So che descrivere certe emozioni non è facile, ma ci provo lo stesso. Era come se mi passasse tutta la vita davanti sotto forma di canzoni: per giorni interi, come non mi era mai accaduto prima, i mille e rotti brani che rappresentano la mia “autobiografia musicale” si sono susseguiti in un ordine del tutto casuale (ascolto in modalità “random”). Ogni brano, si sa, è legato a ricordi, atmosfere, sensazioni. Rimescolarli tutti, e in un certo senso rivivere quelle sensazioni a ritmo serrato, può essere un’esperienza (e so di esagerare, ma lo faccio lo stesso per rendere l’idea) trascendentale.
Sono nato nel 1961, e anche se a volte non mi dispiacerebbe avere vent’anni in meno, credo che la mia generazione sia stata fra le più privilegiate nel rapporto con la musica. Abbiamo orecchiato i Beatles durante l’infanzia; Woodstock, Jimi Hendrix e il primo Santana fanno saldamente parte della memoria; Pink Floyd, Deep Purple e Led Zeppelin ci hanno esaltati durante l’adolescenza. Altri ce li portiamo dietro da allora ma sono ancora in giro: Bob Dylan, i Rolling Stones. Sentiamo la nostalgia dei tempi in cui si passavano serate intere con la chitarra a cantare Simon e Garfunkel (anche se i nostri figli ridacchiano impietosi al solo pensiero). Abbiamo ballato con Barry White, Stevie Wonder, James Brown. Siamo passati, anche se per una breve stagione, attraverso Clash e Talking Heads. E abbiamo potuto apprezzare quello che è venuto dopo: Sting e U2, Oasis e Coldplay…
So che questo rischia di diventare un interminabile elenco (forse noioso, e probabilmente anche un po’ scontato). Era solo per spiegare l’ampiezza dell’escursione sia temporale che stilistica, diciamo così; e per provare a rendere l’idea: una settimana di isolamento totale con l’iPod che pesca a caso nel mucchio, ti propone abbinamenti casuali, e tu ti rendi conto che dietro la casualità si celano richiami inaspettati, affinità nascoste, scherzi della memoria che salta da un momento all’altro, da un decennio all’altro…
E ti ritrovi a canticchiare e a muovere il pennello (è stupido, lo so, ma concedetemi la debolezza) al ritmo di “Born to run” di Bruce Springsteen, a lasciarti catturare come un tempo dai movimenti ipnotici di “Do it again” (Steely Dan), e perfino a ridere ascoltando la canzone più ridicolizzata della storia del pop, “Killing me softly” (ricordate Hugh Grant nel film “About a boy”?) – ma nella versione rap dei Fugees…
E la tecnologia? Dimenticata, appunto. Dietro i quaranta grammi di un iPod nero lasciato per tutta la giornata, per tutta la settimana, nella tasca dei pantaloni imbrattati di pittura.
(da “La rivista”, settembre 2010)
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